Non bastasse, sulla scuola anche la valanga del parlare a vanvera!
Il termine vanverismo è un neologismo al momento non ancora riconosciuto dall’Accademia della Crusca. Composto da vanvera e il suffisso -ismo con valore dispregiativo, comincia a entrare nell’uso con riferimento a vari campi, fra cui quello pedagogico.
Il GDLI (Dizionario Battaglia, ora in rete) non registra vanverismo, ma registra vanvera, che conta 135 risultati, e anche vanverare o vanvereggiare. L’espressione tradizionale, questa sì di frequente uso, parlare a vanvera, corrisponderebbe al temere loqui, ossia esprimersi in modo avventato, privo di fondamento, senza cognizione di causa, da ignoranti ostinati a credersi esperti in campi specialistici a loro estranei.
Per la locuzione avverbiale a vanvera, attestata nell’uso letterario a partire dal Cinquecento e presente in diverse varianti regionali, sono state proposte diverse etimologie, che rimandano per lo più a un’origine onomatopeica: potrebbe forse trattarsi di un modo nato per fare il verso al balbuziente e passato poi a mettere alla berlina chi va farfugliando baggianate in sproloqui e vaniloqui.
I vanveristi pedagogici
Sul vanverismo pedagogico è il titolo di un intervento di Paolo Fasce per la “Rivista di pedagogia critica” in educazioneaperta.it. Si tratta di un intervento molto utile, anche per le ulteriori indicazioni fornite.
Il docente prende posizione di fronte ai toni apocalittici con cui tanti “dotti che si esprimono fuori dai propri domini di competenza” discettano di “tramonto della scuola”, “disastro della scuola”, “scuola distrutta”, “aula vuota”, “senza educazione”, “nuovo analfabetismo”, e così via.
Ai “vanveristi pedagogici” si contrappongono i “tecnici del settore”, gli “ispettori in pensione”, gli “esperti di tecnologie”, purtroppo però senza altrettanto clamore mediatico, perché i loro contributi sono affidati a riviste specialistiche piuttosto che ai mezzi di comunicazione di massa.
Fra l’altro spicca il rimando a un intervento di Christian Raimo dal titolo:
“L’aula vuota di Ernesto Galli della Loggia è un libro pessimo sotto ogni punto di vista” in minimaetmoralia.it. Si tratta di “una stroncatura senza appello”.
Basterebbe a giustificare il giudizio negativo sul pensiero di Ernesto Galli della Loggia il fatto che questi dichiara di non scrivere in qualità di esperto delle discipline e di ritenere che le scienze umane non abbiano nulla di scientifico.
Contro Christian Raimo si sono levate voci sdegnate, come, ad esempio, è avvenuto con Invalsi e dintorni: la situazione è grave ma non seria in scuolalvento.com. Voci di chi evidentemente in buona o cattiva fede condivide con gli esibizionisti il disprezzo delle discipline e delle scienze umane con particolare riguardo alla pedagogia.
La scuola sconosciuta
Tornando a Paolo Fasce, esporrò quelli che sono, a mio avviso, un limite e il pregio del suo intervento.
Un limite consiste nella tendenza a difendere gli studenti e a biasimare i docenti. Si tratterebbe piuttosto di approfondire la conoscenza dell’identità studentesca influenzata e trasformata da diversi fattori, fra cui l’immersione non controllata nella realtà virtuale e gli esempi negativi offerti dalla società. Anche per questo i rapporti fra studenti e docenti non sempre sono idilliaci e ciò rimanda a precise responsabilità che non sono della scuola: responsabilità della famiglia e responsabilità della politica, che proprio sulla scuola tendono a scaricarle.
Il pregio consiste nel fatto che aiuta a mettere nel debito rilievo la spaccatura ingenerata nell’opinione pubblica fra due posizioni contrapposte: quella che fa capo alla discutibile pretesa di misurare le cosiddette competenze mediante test e quella che si richiama invece alle esigenze dell’autentica pedagogia. Ne viene compromessa la ricerca di conoscenza della realtà scolastica. Si presume che la conoscenza debba discendere dall’alto, invece di essere elaborata, come dovrebbe, a diretto contatto con le realtà territoriali. Dovremmo parlare, quindi, di “scuola sconosciuta”.
Scintille vanveriste e tutela dell’istruzione
A questa mancata conoscenza dà un continuo supporto l’Invalsi, ora coadiuvato ancor più fortemente a livello politico, sia per l’introdotta obbligatorietà di essere sottoposti ai test ai fini dell’accesso agli esami, sia per la dichiarazione del ministro dell’istruzione di volersi sottoporre ai test egli stesso, allo scopo di verificare se in essi vi siano eventuali “trabocchetti”. Un modo singolare per intervenire post eventum. A questo punto si rafforza il timore che il vanverismo pedagogico tenda a infiltrarsi sempre più sottilmente presso il ministero che dovrebbe tutelare l’istruzione. Ciò anche perché, dopo l’esplosione vulcanica degli annunci dei risultati Ocse-Pisa e Invalsi, continuano a balenare ogni tanto magmatiche scintille vanveriste.
Un’altra scuola per il Sud
L’economista bocconiano Tito Boeri interviene su “la Repubblica” (11.12.2019) con un articolo titolato in prima pagina:
e riportato all’interno sotto il titolo “Un’altra scuola per il Sud” sormontato dall’occhiello “Una proposta a genitori e insegnanti”.
Secondo l’articolista il Mezzogiorno avrà un futuro solo se
“la sua scuola sarà in grado di generare coorti di diplomati che sappiano leggere, scrivere e far di conto e avere rudimenti di scienza almeno al pari di quanto avviene nelle altre scuole italiane”.
Convinzione fondata sulle cosiddette “rilevazioni obiettive sulla qualità dell’istruzione”.
È desolante sentir dire che i risultati Ocse-Pisa e Invalsi deriverebbero da “rilevazioni obiettive sulla qualità dell’istruzione”, come se la qualità dell’istruzione consistesse nel saper risolvere i test. E appare strano che nell’era delle “scienze dell’incertezza” un addetto all’economia usi con tanta disinvoltura l’espressione “rilevazioni obiettive”.
Imperterrito, l’articolista continua col rilevare che, considerato il più alto potere d’acquisto nel Sud rispetto al Nord per il diverso costo della vita, le retribuzioni dei docenti al Sud sono relativamente più alte, quindi il problema non deriverebbe dalle “paghe”. Né deriverebbe dai “divari socio-economici di partenza”, ma dal “diverso atteggiamento delle famiglie nei confronti della scuola”, nel senso che, quando a livello di istruzione secondaria i genitori al Sud pongono maggiore attenzione all’impegno dei figli nello studio, i risultati si avvicinano a quelli degli studenti del Nord.
La scuola distrutta
La conclusione è che ci dovrebbero essere docenti così preparati da stimolare fra l’altro anche una sempre maggiore partecipazione dei genitori. A parte i precedenti rilievi, Tito Boeri ha ragione però quando afferma che la politica dovrebbe intervenire in campo scolastico con provvedimenti in grado di imprimere “un salto di qualità” alla scuola. In fondo il suo contributo di economista al dibattito sulla scuola si limita a questa discovery of hot water, tanto per dirlo secondo la corrente moda di infarcire di anglismi i discorsi.
Non vi è alcun accenno alla storia della scuola, in cui inquadrare la situazione odierna, come sarebbe consentito a chi tenesse presente Nicola D’Amico, Storia e storie della scuola italiana. Dalle origini ai giorni nostri, Zanichelli, 2010. Dobbiamo purtroppo constatare che proprio la politica persiste da tempo nell’operare in senso opposto alle reali esigenze, come Stefano d’Errico dimostra a chi volesse aggiornarsi in La scuola distrutta edita da Mimesis nel 2019, opera di oltre seicento pagine dedicata a “trent’anni di svalutazione sistematica dell’educazione pubblica e del paese”. Svalutazione dovuta anche e soprattutto a quello che l’autore definisce “Invalsicomio”, così caro a Tito Boeri.
Che il vanverismo pedagogico debba riscontrarsi proprio in quel campo politico che dovrebbe porre le basi per favorire l’autentica pedagogia è il vero dramma del Paese.
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