Il doppio lavoro dei matematici. La fatica i matematici l’avvertono più per pubblicare che per creare. Pubblicare: che lavoro ingrato!
«È stata avanzata l’ipotesi, non inverosimile, che l’insegnamento orale dei successori di Archimede e Apollonio contenesse molti nuovi risultati senza che essi ritenessero necessario infliggersi lo straordinario sforzo di una pubblicazione conforme ai canoni richiesti».
A scriverlo è Nicolas Bourbaki nel più volte citato volume Elementi di Storia della Matematica.
Ed è affermazione largamente condivisa. Pare infatti che per i matematici lo sforzo necessario alla pubblicazione di un risultato sia spesso superiore al lavoro speso per ottenerlo. In ogni caso, più fastidioso, oltreché di natura completamente diversa. E vale ancor oggi. L’ha espresso molto bene anche André Lichnerowicz in Triangolo di pensieri:
«Bisogna distinguere il discorso comunicativo universale e il discorso creativo della matematica. […] Vi sono, di conseguenza, due tipi di attività. Se si diventa matematici, lo si diventa per il discorso creativo, per il gioco dell’intuizione, non certo per l’ingrato lavoro della pubblicazione. Fra questi due tipi di attività si fa spesso confusione».
Sulla questione però s’impone almeno un’altra citazione: Godfrey H. Hardy.
La sua Apologia la inizia con un secco:
«Non c’è disprezzo più profondo (né, tutto sommato, più comprensibile) di quello degli uomini “che fanno” per gli uomini “che spiegano”. Esposizione, critica, valutazione sono attività per cervelli mediocri».
E ancor prima un poeta, il giovane Novalis, interpreta la questione consegnandoci un’immagine gerarchica, “meta”:
«La comunicazione della matematica è matematica: la matematica della matematica».
Espressione che, suscettibile di altre e più approfondite considerazioni, rapidamente porta alla problematica pedagogica: quella che si è insegnata e s’insegna è soprattutto la matematica della matematica. Forse è proprio l’averne preso coscienza che ha decretato l’attuale successo della tendenza alla didattica laboratoriale, ovvero, al porsi nelle condizioni di “fare matematica”.
Riprendiamo comunque dalla frase iniziale di Bourbaki.
Egli si riferisce al periodo dei primi libri a stampa. Del periodo descrive le difficoltà tecniche, i costi, di stampa e di diffusione, le critiche, le controversie e il peso di doverle sostenere.
Entrano in gioco cioè molti aspetti: l’ingrato lavoro della pubblicazione porta spesso ad altre fatiche. Nei racconti degli storici, emblematica al riguardo è la prudenza di C.F. Gauss nell’esternare la matematica “pensata”: evitare gli strilli dei beoti.
Nel passo che si riporta, Bourbaki parla di tutto ciò e di Archimede, di quanto sia “stato modello e fonte di ispirazione” per i fondatori del calcolo infinitesimale del XVII secolo e autorità cui affidarsi come nume tutelare.
«Mentre i grandi classici della letteratura e della filosofia greca furono tutti stampati in Italia, da Aldo Manuzio e dai suoi emuli, e quasi tutti prima del 1520, solo nel 1544, a Basilea e ad opera di Hervagius, apparve l’edizione principe di Archimede, greca e latina, senza che nessuna pubblicazione anteriore in latino le preparasse la via.
Assorbiti nelle loro ricerche algebriche, i matematici di quei tempi erano ben lungi dal subirne l’influsso e fu necessario attendere Keplero e Galileo, ambedue astronomi e fisici più che matematici, perché questo influsso si manifestasse. A partire da allora, e senza interruzione fino al 1670, nessun nome, negli scritti dei fondatori del calcolo infinitesimale, ricorre più spesso di quello di Archimede.
Numerose le traduzioni ed i commenti.
Tutti, da Fermat a Barrow, lo citano continuamente. Tutti dichiarano di trovarvi al tempo stesso un modello ed una fonte di ispirazione. Come vedremo, non tutte queste dichiarazioni vanno prese alla lettera. In ciò appunto risiede una delle difficoltà che si oppongono ad una esatta interpretazione di tali scritti.
Lo storico deve anche tenere conto dell’organizzazione del mondo scientifico di quei tempi, che, ancora molto difettosa agli inizi del XVII secolo, soltanto verso la fine dello stesso secolo, con la creazione delle società di studiosi e dei periodici scientifici ed il consolidamento e lo sviluppo delle università, finirà per essere molto simile a quella dei giorni nostri.
Sprovvisti di qualsiasi periodico fino al 1665, i matematici non avevano altra scelta, per far conoscere i propri lavori, che lo scambio epistolare o la pubblicazione di un libro, il più delle volte a proprie spese o con il contributo di un mecenate, se pur riuscivano a trovarne uno.
Gli editori e stampatori capaci di simili imprese erano rari e talvolta poco sicuri.
Dopo le lunghe attese e gli innumerevoli contrattempi che una pubblicazione di questo genere implicava, l’autore doveva il più delle volte far fronte a controversie interminabili, provocate da avversari non sempre in buona fede e che si protraevano a volte con tono sorprendentemente astioso. Infatti, a causa dell’incertezza generale in cui ci si trovava a proposito dei princìpi stessi del calcolo infinitesimale, non era difficile per nessuno trovare punti deboli, o per lo meno oscuri e contestabili, nei ragionamenti dei rivali.
Si capisce come, in queste condizioni, molti scienziati amanti della tranquillità si contentassero di comunicare a qualche amico scelto i loro metodi ed i loro risultati. Alcuni, e soprattutto certi scienziati dilettanti quali Mersenne a Parigi e più tardi Collins a Londra, coltivavano una vasta corrispondenza in tutti i paesi, con la quale rendevano noti dei brani tratti ora di qua ora di là e non senza mescolarvi sciocchezze di proprio pugno. In possesso di “metodi” che, per mancanza di nozioni e di definizioni generali, essi non potevano redigere sotto forma di teoremi e neppure formulare con qualche precisione, i matematici erano costretti a saggiarli su una quantità di casi particolari, e credevano di non poter fare niente di meglio, per controllarne la validità, che lanciare delle sfide ai loro colleghi, accompagnandole talvolta con la pubblicazione dei propri risultati in linguaggio cifrato.
La gioventù studiosa viaggiava, e forse più di oggi.
Le idee di un certo scienziato si diffondevano talvolta meglio attraverso i viaggi di uno dei suoi allievi che attraverso le pubblicazioni; ma questa poteva essere ancora un’altra causa di malintesi. Infine, poiché gli stessi problemi si ponevano necessariamente ad una moltitudine di matematici (alcuni dei quali assai valenti) che possedevano solo una conoscenza imperfetta dei reciproci risultati, non potevano mancare le continue rivendicazioni di priorità e non era raro che ad esse si unissero le accuse di plagio».
In questa ulteriore pagina dell’antologia per insegnare matematica usando la sua storia c’è una data, il 1665, che va spiegata.
Fino al 1665 i matematici erano sprovvisti di qualsiasi periodico. Bourbaki si riferisce al Journal des Savants che iniziò le sue pubblicazioni nel 1665 e includeva articoli scientifici e matematici. Si può consultare al riguardo nel vol I della Storia del pensiero matematico di Morris Kline, lo specifico paragrafo: I mezzi di comunicazione fra i matematici.
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