Enrico Fermi, l’ultimo grande fisico completo: cos’era per lui capire la matematica.
La biografia scientifica di Enrico Fermi scritta dal suo allievo e collega Emilio Segrè (Zanichelli, 1971) è un testo pressoché introvabile, oggi. Si può dire che era ancora fresco di stampa quando Bruno de Finetti ne pubblicò alcuni passi per comporre un articolo cui diede il titolo: Enrico Fermi: cos’era per lui «capire la matematica» (PdM, 4/1973). Come autore indicò lo stesso Enrico Fermi.
Racconta Segrè: «Non so come Fermi scoprì la matematica.
È probabile che sia accaduto ascoltando qualche discorso degli amici di suo padre, molti dei quali erano ingegneri. Fermi mi raccontò una volta che uno dei suoi maggiori sforzi intellettuali era stato quello di capire, da sé, a dieci anni, il significato della frase che l’equazione x2+y2=r2 rappresenta un cerchio. Qualcuno l’aveva detto in sua presenza, senza spiegazioni, e il ragazzetto era abbastanza svelto e interessato al problema da fare lo sforzo mentale di capire la cosa da sé, il che a quell’età e senza preparazione non è certo poco».
E prosegue: «Quando lo incontrai per la prima volta aveva quattordici anni; mi accorsi con meraviglia di avere un compagno di scuola non soltanto “bravo in scienze”, come si diceva, ma anche dotato di un’intelligenza completamente diversa da quella di altri ragazzi che conoscevo e che consideravo intelligenti e studiosi.
Prendemmo l’abitudine di fare insieme lunghe passeggiate da un capo all’altro di Roma, parlando di argomenti di ogni genere con l’irruenza tipica della gioventù. Ma in queste conversazioni di adolescenti Enrico introduceva una precisione d’idee, una sicurezza di sé e un’originalità che non cessavano di stupirmi. Inoltre in matematica e fisica dimostrava di conoscere molti argomenti non in modo scolastico, ma in maniera tale da potersene servire con la massima abilità e consapevolezza. Già allora per lui conoscere un teorema o una legge scientifica significava soprattutto conoscere il modo di servirsene».
Fermi appena quattro anni dopo la laurea, nel 1926, vinse il primo concorso di Fisica Teorica bandito in Italia (risultato: 1° Enrico Fermi, 2° Enrico Persico, 3° Aldo Pontremoli).
Il giudizio della commissione è particolarmente attento alle qualità matematiche di Fermi:
«Mentre possiede in modo completo le più sottili risorse della matematica, sa farne uso sobrio e discreto, senza mai perdere di mira il problema fisico di cui cerca la soluzione e il giuoco e il valore concreto delle grandezze fisiche che egli maneggia. Mentre gli sono perfettamente familiari i concetti più delicati della meccanica e della fisica matematica, riesce a muoversi con piena padronanza nelle questioni più difficili della fisica teorica moderna, cosicché egli è oggi il più preparato e il più degno per rappresentare il nostro Paese in questo campo di così alta e febbrile attività scientifica mondiale».
L’attenzione alle conoscenze matematiche di Fermi e all’uso che egli ne fa emerge da un altro passo di Segrè.
Egli spiega perché Fermi si laurea ( nel 1922) con una tesi in fisica sperimentale anziché in fisica teorica, dove aveva già conseguito ottimi risultati. Ecco il perché:
«Occorre spiegare che a quell’epoca in Italia la fisica teorica non era riconosciuta come disciplina oggetto di insegnamento universitario, e una tesi in questa materia avrebbe scandalizzato almeno i docenti più anziani. I fisici erano essenzialmente sperimentatori, e una tesi di fisica sarebbe stata accettata soltanto se sperimentale. La materia più vicina alla fisica teorica, la meccanica, veniva insegnata dai matematici in quanto campo della matematica applicata, nel più completo disinteresse per le sue connessioni fisiche. Queste circostanze spiegano perché argomenti come la teoria dei quanti non avessero preso piede in Italia. Si trattava di una “terra di nessuno” tra la fisica e la matematica. Fermi fu il primo, in Italia, a colmare questa lacuna».
Segrè ricorda anche Orso Mario Corbino (l’uomo dietro ai ragazzi di via Panisperna) che una volta con una battuta “un po’ acida” disse che la fisica matematica coltivata in Italia a quell’epoca era la “fisica teorica del 1830”. È utile leggere, come passo antologico, anche quanto Segrè scrisse di Vito Volterra, del suo modo di fare lezione e di considerare gli ambiti di ricerca e d’insegnamento.
Nel periodo in cui ne è stato il direttore, Bruno de Finetti era solito introdurre ogni articolo pubblicato dal Periodico di Matematiche con un cappello di presentazione dell’autore e del contenuto. Il cappello dell’articolo: Enrico Fermi cos’era per lui capire la matematica, è il seguente:
“Diceva di lui un grande matematico – con accento di viva ammirazione mista a un po’ di disappunto – che egli usava la matematica «da fisico» (cioè, intendeva dire, non curandosi troppo del «rigore»), eppure…aveva sempre ragione”.
Il grande matematico al quale Bruno de Finetti fa riferimento è Stanislaw Ulam.
È l’autore di Homage to Fermi del 1955 ma anche di Avventure di un matematico iniziato già nel 1972 e pubblicato nel 1976. Una delle autobiografie matematiche che ha fatto scuola, tanto quanto il suo autore. Un’autobiografia della quale Fermi insieme a John von Neumann è il grande personaggio. Il co-protagonista di una parte importante della vita scientifica e sociale di Ulam.
Scrive Ulam: “Incontrai per la prima volta Fermi quando arrivò a Los Alamos […] Qualche giorno prima del suo arrivo, von Neumann, Teller, io ed altre due o tre persone sedevamo per il pranzo nella Fuller Lodge, quando ad un certo punto, Teller disse: «E’ oramai sicuro che Enrico arriverà la prossima settimana». Io già sapevo che Fermi era soprannominato il papa per l’infallibilità delle sue asserzioni. Pertanto, immediatamente recitai: Nuncio vobis gaudium magnum, habemus papam”. […] Johnny, che non capiva, chiese spiegazione di questa citazione e l’allusione fu applaudita dall’intera tavolata”.
Ulam ha grande ammirazione per Fermi.
Lo ritiene “l’ultimo grande fisico completo, […] l’ultimo fisico grande sia come teorico, che come sperimentale”.
“Fermi era basso, di corporatura solida, con braccia e gambe forti e movimenti piuttosto veloci. Il suo sguardo, talvolta dardeggiante, poteva diventare fisso ed inespressivo quando stava prendendo in considerazione un problema. Le sue dita spesso giocavano nervosamente con una matita o con un pezzetto di carta arrotolata. Generalmente appariva di buonumore, con un sorriso quasi perenne fra le labbra. Aveva un fare inquisitorio. La sua conversazione era piena di interrogazioni, piuttosto che di affermazioni conclusive. Le sue domande erano formulate in maniera tale che si capiva chiaramente quale fosse la strada in cui Fermi credeva o quale fosse la sua supposizione. Il suo era un tentativo di illuminare il pensiero dell’interlocutore ponendo domande in modo socratico, ancor più concretamente che in una successione platonica di problemi. […]
Fermi aveva un grande bagaglio di conoscenze impresse nella memoria come fossero schemi ed immagini delle più importanti leggi della fisica e dei loro effetti; possedeva anche un’ottima tecnica matematica che preferiva usare soltanto se necessario. In realtà era qualcosa in più di una semplice tecnica; era piuttosto un metodo per affrontare il problema analizzandone a turno tutte le componenti. […] L’odierna conoscenza, ancora troppo limitata, dei fenomeni di introspezione non ci consente di spiegare fino in fondo un tale meccanismo di pensiero. Si tratta di un’arte piuttosto che di una scienza. Nel caso di Fermi, egli era preminentemente razionale”.
“Quando ne aveva bisogno era in grado di risolvere qualsiasi tipo di problema matematico”.
Ulam ricorda ancora la “statistica di Fermi”, le sue valutazioni e previsioni su fenomeni e possibili andamenti, le sue geniali semplificazioni nei calcoli complessi e le soluzioni magicamente esatte alle quali perveniva usando magistralmente i logaritmi e il regolo calcolatore (immancabile nel taschino esterno della giacca, come nella tradizione degli ingegneri italiani).
Fermi era un appassionato e valente giocatore di tennis.
Quando perdeva quattro giochi su sei era solito dire «Non vale, perché la differenza è minore della radice quadrata della somma dei numeri dei giochi» ( che è la misura della fluttuazione casuale in statistica).
Tra i racconti di Ulam c’è un altro avvenimento che è importante per le finalità della presente nota. Riguarda l’insegnamento tenuto da Fermi all’università di Chicago e al suo intendimento di dare al corso di teoria quantistica un’impostazione diversa presentandola secondo uno sviluppo “rigidamente logico”.
“Evidentemente – scrive Ulam – ci stava lavorando su, ma l’estate seguente, quando ritornò a Los Alamos, mi disse: «No, non sono riuscito a realizzare il mio progetto di introdurre in modo totalmente razionale la teoria quantistica». Non si tratta soltanto di una serie di assiomi, come taluni puristi ingenui potrebbero pensare. La questione è: perché tali assiomi e non altri? Nessun algoritmo che funzioni può essere assiomatizzato. Il problema era come introdurre, giustificare, collegare o semplificare gli assiomi, storicamente o concettualmente, e come argomentare che essi si basino sull’evidenza sperimentale”.
C’è qui l’idea che de Finetti, e non solo lui, ha spesso espresso e cioè che ogni insieme di assiomi avrebbe bisogno almeno di un assioma “zero” per giustificarli. Vi sono però richiamati anche i limiti del rigore sempre. Specie nell’insegnamento dove potrebbe risolversi in rigor mortis per dirla con Kasner&Newman.
La conclusione di de Finetti è piena di buon senso, alla Fermi.
Cos’era per lui «capire la matematica» si può tentare di richiamare in tante e tante narrazioni. Certamente significative, ma tutte incomplete. D’altronde, l’ha scritto
anche Ulam, le nostre conoscenze non ci consentono di spiegare fino in fondo un tale meccanismo di pensiero. Perché x2+y2=r2 rappresenta un cerchio? Fermi ha voluto capirlo già a dieci anni. La comprensione di una tale questione è lucifera e fructifera, secondo la distinzione di Francesco Bacone. Equivale a unire algebra e geometria, associare forme geometriche a equazioni, punti a coppie o n-uple ordinate di numeri. Equivale ad aprire la mente e i sensi a visioni ed immagini prima non possedute arrivando a gustare la musica da camera della matematica come Kasner&Newman hanno chiamato la geometria analitica di Cartesio.
L’esempio di Enrico Fermi ovviamente, è troppo inimitabile per servire direttamente come modello.
Cionondimeno può giovare assai ai docenti. Contribuire a chiarire per lo meno il tipo di attitudini che vanno curate. La direzione in cui occorre “cercare di indirizzarle e svilupparle”.
Capire la matematica è formazione in senso pieno, a trecentosessanta gradi. Sapersene servire all’occorrenza è una delle manifestazioni più auspicabili. È formazione piena nel senso che diviene modo di essere della persona, ne informa comportamento, anche morale e civile, il carattere, la volontà, la fiducia in se stesso, il gusto, semantico ed estetico, per l’essenziale, per trovare la giusta misura delle cose e leggere in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto dinanzi a gli occhi. Nei passi citati c’è il riferimento a tutto questo. C’è il riferimento al ruolo della memoria e al nascere dell’autonomia di pensiero. Essenziale quel voler trovare da sé, anche se quel “sé” è non trasportabile né replicabile: nel caso, è di Enrico Fermi.
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Ottimo articolo e ottime riflessioni. Lessi l’articolo citato da Ambrisi “Enrico Fermi: cos’era per lui «capire la matematica»” nel «Periodico di matematiche» vol. 49, n. 4 (1973) quando ero ancora allievo ingegnere, nella biblioteca di mio padre Salvatore Nicotra. Rimasi colpito dalla umiltà con cui Bruno de Finetti non aveva firmato l’articolo, lasciando intendere che il vero autore fosse lo stesso Fermi, limitandosi al ruolo di un “occulto” regista, ma subito riconoscibile dallo stile inconfondibile: si capiva perfettamente che era lui l’autore dell’articolo, anche se riportava molti brani del libro di Emilio Segre “Enrico Fermi, fisico” edito da Zanichelli nel 1971. Le allusioni all’ «aulico dominio del Sapere Accademico», alla «tirranide burofrenica», ecc. non lasciavano dubbi: soltanto Bruno de Finetti poteva averlo scritto.
Come ingegnere ovviamente non posso che accogliere con gioia e piena approvazione i contenuti dell’articolo citato. La matematica da fisico è anche quella da ingegnere. Ho avuto l’onore di studiare ingegneria meccanica nella sede storica di San Pietro in Vincoli a Roma (via Eudossiana ) dove studiarono Majorana e Segre e dove insegnò pure Fermi. Prima ancora, da studente liceale, avevo avuto la fortuna di conoscere Bruno de Finetti al Club Matematico dell’Istituto Matematico “Guido Castelnuovo”.