Seneca della geometria: O egregiam artem! Al geometra: sei in grado di misurare tutto. E, allora, se sei veramente abile (si artifex es), metire hominum animum, misura l’animo dell’uomo!

Lucio Anneo Seneca (4 – 65 d.C.)
Matematici e geometri nell’antica Roma non erano la stessa cosa. Secondo Morris Kline – Storia del pensiero matematico, vol I, Einaudi, 1991 – il termine “matematica” cadde in disgrazia perchè gli astrologi venivano chiamati mathematici e l’astrologia era condannata dagli imperatori romani. Gradatamente si arrivò, con Diocleziano (245-316 d. C.), alla distinzione netta della geometria dalla matematica. La prima doveva essere studiata e applicata nei pubblici servizi, mentre “l’arte della matematica” cioè l’astrologia, era vietata nella sua interezza. Il “codice della matematica e delle cattive azioni”, che era la legge romana che vietava l’astrologia, venne applicato anche in Europa nel medioevo. La distinzione tra i termini matematico e geometra durò un bel pezzo anche dopo il Rinascimento. Ancora nei secoli XVII e XVIII geometra significava ciò che noi intendiamo per matematico.
Al geometra si rivolge Lucio Anneo Seneca (4 a.C. – 65 d.C.) il filosofo stoico, precettore e ministro di Nerone che poi lo condannò al suicidio. I suoi scritti più significativi, dal punto di vista etico, filosofico ed educativo sono le Epistulae ad Lucilium, le lettere al suo amico Lucilio.
Nelle lettere, Seneca affronta il valore dello studio e delle discipline. La sua è una riflessione da filosofo, una sollecitazione morale.
Quella che rivolge al geometra, la conclude così:
Il discorso di Seneca è importante per tanti aspetti.
Tra questi anche quello della descrizione delle competenze che lui riconosce al geometra. Infatti, ciò che scrive dà l’idea degli studi di geometria e della concezione che se ne ha. Appare chiaro che l’attenzione principale è alla misura, in particolare alla quadratura delle figure a contorno curvilineo e al calcolo. Ed è come se facesse trasparire che al geometra devono essere note le opere di Archimede: la Misura del cerchio, la Sfera e il cilindro, l’Arenario, ovvero il calcolo con i grandi numeri delle distanze interstellari. Una conferma cioè che a Roma, Archimede è presente negli studi, specie da quando Cicerone ne ha ritrovato la tomba tra i rovi della campagna di Siracusa. L’attenzione alla misura è peraltro una caratteristica della matematica greco-romana post archimedea.
Seneca si rivolge dunque al geometra. Scis rotunda metiri, tu sai misurare le cose rotonde, i corpi e le figure delimitate da linee curve. Quindi il cerchio, ma anche i segmenti e i settori circolari. In effetti, sai fare la quadratura di ogni figura che ti si presenti. Calcoli la distanza tra due stelle, intervalla siderum dicis. Sei in grado di misurare tutto. E, allora, se sei veramente abile (si artifex es), metire hominum animum, misura l’animo dell’uomo. Mostraci la sua grandezza e le sue meschinità: dic quam magnus sit, dic quam pusillus sit.
Fin qui misura e calcolo. E poi: Scis, quae recta sit linea. Sai che cos’è la linea retta, ma a che ti giova se ignori cos’è vivere con rettitudine? C’è qui la retta immagine e modello di vita morale. Una metafora che ancora sopravvive, avvolta in una dialettica esistenziale ed estetica che ultimamente Paolo Portoghesi ha richiamato parlando di poesia della linea curva.
Con il riferimento alla retta, Seneca non attinge più alla matematica di Archimede, ma a quella di Euclide più “elementare” e naturale insegnamento da cui partire per avviare alla formazione del pensiero razionale.
Sapere cos’è la linea retta è conoscerne la definizione. È la quarta delle 23 del libro primo degli Elementi:
Linea retta è quella che giace ugualmente su se stessa con i suoi punti.
«Definizione oscura – annotano Frajese e Maccioni – per la quale ogni traduzione appare incerta. Sembra che con essa Euclide voglia intendere che sulla retta non vi sono punti privilegiati, così come sul piano non vi sono rette privilegiate».
Non meno oscura la traduzione in latino che secondo Jean-Yves Guillaumin risaliva a un Lucio Cornelio Balbo vissuto nel I secolo a.C.:
Recta linea est quae aequaliter suis signis rectis posit est.
Seneca tirando in ballo la retta si colloca decisamente su un piano meno operativo e più concettuale. Ma allo stesso tempo porta a considerare il problema fondamentale che i Romani si erano trovati a dover affrontare, quello della traduzione in latino. Avevano scelto di non tradurre. I Romani che volevano studiare la geometria dovevano farlo in greco. Per i giovani colti e ricchi non c’era nulla di meglio di uno stage in una delle grandi scuole del Mediterraneo: Alessandria, Atene, Cartagine, Pergamo, Rodi, Smirne.
Se la geometria continuò ad essere studiata in greco è naturale che essa continuò ad essere scritta in greco.
L’imperatore Giustiniano nel 529, chiudendo le grandi scuole, decretò anche che la lingua ufficiale dell’impero d’oriente fosse il greco. Se anche i Romani l’avessero fatto secoli prima a favore del latino, la loro lingua, Tolomeo e Erone, Diofanto, Teone di Smirne, Pappo, Teone di Alessandria e la figlia Ipazia e Proclo, avrebbero scritto in latino e non sarebbero stati ricordati come matematici greci.
I Romani piuttosto che «agenti distruttori» della matematica, secondo l’affermazione di Morris Kline, furono agenti protettori della cultura e della lingua greca. Una generosità politica e culturale della quale la storia non li ha ripagati. Anzi, la scelta di non tradurre ha rischiato di avere conseguenze molto gravi. Senza la mediazione linguistica degli arabi, la matematica greca di Archimede e di Apollonio sarebbe andata persa per sempre. Paradossalmente i primi Elementi di Euclide in latino, persi quelli di Severino Boezio, furono traduzioni dall’arabo e non dal greco.
Il passo di Seneca è dunque un documento prezioso ed utile per una riflessione multidisciplinare sulla geometria dei Romani, i suoi contenuti e le sue finalità.
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