Le discussioni sulla scuola, gli insegnamenti, i metodi, i risultati, il futuro. Il presente innanzi al tribunale della storia.
Reviviscenza delle polemiche sull’insegnamento della storia

Giambattista Vico (1668-1744)
Come accade di consueto nel nostro paese, si è riproposto di recente sull’insegnamento della storia un dibattito che ha radici lontane. La stampa quotidiana non ha mancato di metterlo in risalto. Ad esempio, su “il Fatto Quotidiano” del 26 novembre 2021 Alex Corlazzoli riferisce circa la divergenza di idee tra il fisico Roberto Cingolani, ministro per la Transizione ecologica stranamente “all’attacco di Greta Tunberg”, e l’ex ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina per la quale “la vita insegna”.
La dichiarazione del fisico rilasciata la sera prima al Tg2Post viene riportata dall’articolista nella non impeccabile forma seguente:
“A noi serve più cultura tecnica a partire dalle scuole. Tra dieci anni ci serviranno i digital manager per la salute, per l’energia; lavori che nemmeno esistono oggi. Il problema è capire se continuiamo a fare tre-quattro volte le guerre puniche nel corso di dodici anni di scuola o se la facciamo una volta sola ma cominciamo a impartire un tipo di formazione un po’ più avanzata, a partire dalle lingue, dal digitale.”
Tale esternazione, ripresa in forme leggermente diverse da altri quotidiani e siti, lascia un po’ perplessi per la strana aritmetica delle “tre-quattro volte” e dei “dodici anni di scuola”, configurante un calcolo aleatorio riferito a un contenuto avulso da ogni contesto metodologico. Calcolo che non tiene conto dell’importanza storica dello scontro fra Roma e Cartagine per il dominio sul Mediterraneo né delle tecniche di combattimento grazie alle quali i Romani ebbero il sopravvento.
Comunque il suddetto ministro in carica (non però per l’Istruzione) ha ricevuto consensi e dissensi all’insegna del costume italico, secondo cui ognuno è libero di avere le sue idee. Si tratta però di stabilire quale sia la qualità delle idee che si hanno.
Ritorna qui in forma dissimulata l’idea avanzata da qualcuno in passato che “con la cultura non si mangia”.
Lo si desume dall’uso del verbo “serve” in connessione con “cultura”. Si desidera “più cultura tecnica a partire dalle scuole” per “lavori che nemmeno esistono oggi”. Collegamento, a dir poco, davvero ardito tra il presente e un futuro sconosciuto. Si dirà che il ministro si è espresso soltanto sull’opportunità di non insistere troppo sulla studio delle guerre puniche. Ma questo potrebbe essere solo il primo passo per ridimensionare l’insegnamento della storia in gran parte, se non addirittura nella sua interezza, in quanto l’espressione “guerre puniche” ha tutta l’aria della sineddoche.
Intervistata in proposito, Lucia Azzolina così si è espressa anche con riguardo alla ventilata circostanza che le guerre puniche vengano riproposte più volte lungo il corso degli studi:
“Si può tranquillamente far studiare ai ragazzi le guerre puniche e ricordare loro che in futuro avremo anche necessità di lavoratori e di laureati che hanno una cultura tecnica e scientifica […] La scuola non ripete gli stessi argomenti ma li esamina, li fa vivere in modo diverso, con una comprensione adatta ad ogni età.”
Evidentemente la Azzolina si rende conto del pericolo che la posizione del Cingolani rischia di far correre allo studio della storia.
L’Alzheimer da patologia individuale a morbo sociale
Nel nostro presente dilaga una sorta di variante dell’Alzheimer. È una perdita della memoria che colpisce non l’individuo, ma la società, cosicché viene a instaurarsi un difetto esistenziale collettivo. La comunicazione stessa risulta deprivata della possibilità di ripensare i rapporti interpersonali alla luce del passato del genere umano.
Un tempo la voce dell’oratore aveva il compito di affidare la storia come maestra di vita all’immortalità:
«Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis, qua voce alia nisi oratoris immortalitati commendatur?» (Marco Tullio Cicerone, De oratore)
Oggi la chiacchiera dell’esistenza banale heideggeriana sovrasta quella voce e il frastuono riduce al silenzio la ragione. Vero è che non tutti sono oratori, anzi pochi lo sono davvero. Eppure l’uso civile della parola dovrebbe essere patrimonio del maggior numero di persone. Le parole stesse sono cariche di storia e dovrebbero essere sentite e vissute come tali.
Resta memorabile nonostante la sua secolare distanza questa esortazione:
“O Italiani, io vi esorto alle storie, perché niun popolo più di voi può mostrare né più calamità da compiangere, né più errori da evitare, né più virtù che vi facciano rispettare, né più grandi anime degne di essere liberate dalla obblivione da chiunque di noi sa che si deve amare e difendere ed onorare la terra che fu nutrice ai nostri padri ed a noi, e che darà pace e memoria alle nostre ceneri.” (Ugo Foscolo, Dell’origine e dell’ufficio della letteratura)
La nobiltà di simili testimonianze risuona purtroppo estranea in una realtà come la nostra, caratterizzata dalla “modernità liquida” secondo la diagnosi di Zygmunt Bauman.
La dimensione storica tra memoria e amnesia
Attraverso i secoli non sono mancati tentativi di esorcizzare il passato. Catherin Nixey in The Darkening Age. The Christian Destruction of the Classical World, opera molto contestata, offre comunque spunti per riflettere sullo scontro epocale fra paganesimo e cristianesimo. Vero è che, come dimostra Eric Dodds in Pagan and Christian in an Age of Anxiety: Some Aspects of Religious Experience from Marcus Aurelius to Constantine, fra pagani e cristiani non mancarono tentativi di dialogo, anche se i cristiani finirono col prendere il sopravvento. Nonostante la conflittualità affiorante fra due visioni del mondo incompatibili, il patrimonio culturale del mondo classico scampò al rischio di essere del tutto cancellato. Testi di autori greci e romani cominciarono ad essere trascritti e tramandati grazie all’opera dei monaci amanuensi.
Altri momenti di tensione e di rottura, come quelli dell’umanesimo nei confronti del medioevo, della disputa fra antichi e moderni, del romanticismo in antitesi al neoclassicismo, e così via, non sono stati tali da comportare una frattura col passato destinata a non ricomporsi. Ciò vale per ogni campo del sapere, in cui fino all’epoca attuale nessuno scontro si era mai risolto in divorzio e della luce del passato non si era mai offuscato il riverbero. Purtroppo si va diffondendo oggi il contagio dell’amnesia. Gli intellettuali che cercano di contrastarlo sono simili ai monaci amanuensi. Adriano Prosperi, docente di Storia moderna e membro dell’Accademia Nazionale dei Lincei, è autore di Un tempo senza storia. La distruzione del passato, in cui stigmatizza “la perdita di memoria collettiva e di ignoranza della nostra storia”.
La dimensione storica interna alle discipline
Ludovico Testa, studioso di storia contemporanea, nel saggio Il tempo della storia così ci ricorda la rivoluzione storiografica inaugurata dalle Annales d’Histoire économiques et sociales:
“Secondo i fondatori delle Annales d’Histoire économiques et sociales la storia non doveva infatti esaurirsi nell’elencazione di battaglie e conquiste o nelle gesta di sovrani, principi e pontefici, ma dotarsi invece di un respiro più ampio, capace di contestualizzare individui ed eventi attraverso l’apertura e la contaminazione tra le scienze umane. Interdisciplinarità, dunque, quale condizione ineludibile per la comprensione della storia, alla quale andava accompagnata un’apertura a ventaglio sull’oggetto dell’indagine storica. Non più soltanto una storia politica, ma anche e soprattutto una storia sociale […] Altra grande novità avanzata dalla storiografia delle Annales era costituita dal rapporto dell’uomo con il tempo. La storia non doveva essere considerata soltanto come ‘passato’ ma, al contrario, i suoi confini andavano dilatati fino a comprendere il presente, al fine di instaurare tra le due dimensioni temporali un fitto scambio dialettico.”
La storia acquista in tal modo una dimensione antropologica.
A differenza di quanto si può credere, un fenomeno come quello della guerra non ne viene espunto, ma riceve un diverso inquadramento: così, ad esempio, gli eventi bellici presso i Romani vengono ad essere ricondotti nel quadro generale della distruttività umana, così come essa si manifesta in forme peculiari attraverso il tempo.
Né possiamo dimenticare a tale riguardo l’opera dal titolo di per sé eloquente Principi di una scienza nuova intorno alla natura delle nazioni per la quale si ritrovano i principi di altro sistema del diritto naturale delle genti del nostro Giambattista Vico.
In una riforma dei programmi di studio queste prospettive dovrebbero essere seriamente considerate. Ogni disciplina ha una sua dimensione storica, che non deve essere sacrificata sull’altare del cosiddetto progresso. Si tratta di evidenziare tale dimensione all’interno di ogni materia di studio al di là di una successione meramente cronologica di eventi.
L’illusione della fine della storia
Nel numero di aprile-maggio 1996 la rivista Nord e Sud delle Edizioni Scientifiche Italiane ospitava il saggio Il labirinto educativo di Emilio Ambrisi-Biagio Scognamiglio, in cui si legge fra l’altro a proposito dei caratteri fondamentali della storia:
“Porre l’accento sul carattere universale, che ha trovato nel tempo autorevoli assertori, equivale all’intento di riconoscere all’interno dello sviluppo complessivo delle società un disegno, provvisto di senso, che sia storia di tutti, di ciò che è comune a tutte le culture, ovvero storia della cultura. Il carattere cumulativo è mutuato dalla regina delle scienze: la matematica, che aggiunge risultati, senza rinnegarne mai alcuno (il teorema di Pitagora è vero oggi come lo era allorquando, a distanza di millenni, fu ideato); di qui il concetto di una storia cumulativa, che fa tesoro delle esperienze, evitando di incorrere negli errori del passato. Sotto il profilo direzionale, infine, ci si chiede dove conduca la storia quale processo universale e cumulativo, quindi evolutivo: alla sua stessa fine, è stato affermato, come dimostrerebbe l’odierna tendenza alla diffusione ecumenica della democrazia liberale.”
L’illusione che la storia sia giunta a un suo termine si è riproposta più volte nel tempo fino alla storiografia più recente, rappresentata fra gli altri da Alexandre Kojève e Francis Fukuyama. Eppure, se la storia avrà una fine, ciò avverrà con l’estinzione dell’umanità intera, perché verrà meno in tal caso la ἱστορία intesa etimologicamente come “sapere per aver visto”. Allora la fine della storia non sarà contemplata da nessuno su un pianeta divenuto privo di ogni nostro sguardo.
Intanto la sentenza del tribunale della storia è di severa condanna per la crescente e forse definitiva disumanità di un pervicace imputato: l’egoista, di istante in istante recidivo nel non accordare al tempo altra realtà al di fuori della sua individuale esistenza, pervicace nel non voler darsi pensiero né degli antenati storici né degli storici discendenti, irrimediabilmente noncurante delle sorti del genere umano.
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