Dalle necessità della scolarizzazione di massa all’opportunità di limitarne gli eccessi. Cinquant’anni fa l’idea di Ivan Illich di descolarizzare la società.
Perché la scomparsa terrena di Maradona ha suscitato scalpore e cordoglio da un capo all’altro del mondo? Una concordanza di sentimenti che non c’era mai stata prima, in modo così totale, universale? Se l’è chiesto e ne ha parlato Biagio Scognamiglio in L’arte del calcio e la matematica in campo. Risalendo dal terreno del gioco ai suoi significati, ha scritto: “Sommo poeta, non fu solo poeta. In lui si fondevano poesia e scienza….la sua psicologia era sapiente e estrosa…l’inventiva sfidava le leggi della fisica… per comprendere la sua matematica artistica bisognerebbe chiamare in causa anche la biologia. Insomma Maradona è interdisciplinare”.
Poi però anche Maradona è stato mercificato. Da bambino povero che aveva appreso per strada, a calciatore arricchito, deviato, omologato e oggetto di sfruttamento.
Effettivamente c’è tanto di cui parlare.
Ma qui, in questo “Maradona è interdisciplinare”, c’è un legame che salta fuori più forte e naturale degli altri. Corre ad una delle riflessioni più “sovversive” mai fatte sull’istruzione e sui sistemi educativi. Qualcosa in cui centrali sono la povertà e l’America Latina, l’imparare per strada, in libertà, condividendo con la comunità. Imparare a parlare, a giocare a pallone, a danzare, a sfilare nelle parate del carnevale di Rio de Janeiro partecipando e apprendendo con gli altri, insieme agli altri. Una riflessione che è il contenuto di un libro di cui ricorre il cinquantenario. Fu pubblicato nel 1970: autore il viennese Ivan Illich (1926-2002). Alla traduzione italiana provvide la Arnoldo Mondadori nel 1972. Il titolo: Descolarizzare la società. Nel difficile momento pandemico che si sta vivendo, una riflessione che può fare bene ripercorrere. Un libro da rileggere. Un invito ad un consuntivo di cinquant’anni di storia, di teorie didattiche, di riforme scolastiche. Dove siamo?
Può essere ancora valido aspirare alla ricerca di trame e tessuti didattici che “diano a ognuno maggiori possibilità di trasformare ogni momento della propria vita in un momento di apprendimento, di partecipazione e di interessamento?” È ancora possibile tendere a precisare quegli “obiettivi individuali che possono favorire l’avvento di una Età del tempo libero (scholé) in opposizione a un’economia dominata dalle industrie dei servizi?”
Rileggendo, certamente c’è da chiedersi se il lavoro di Illich di cinquant’anni fa, le sue analisi e i suoi obiettivi, fossero campati in aria o non siano tuttora sensati e da non mettere da parte.
Ad esempio, è vero che ad essere scolarizzata non è soltanto l’istruzione ma l’intera realtà sociale?
Che mandare a scuola i ricchi e i poveri costa pressappoco lo stesso? Che ricchi e poveri “dipendono nella stessa maniera da scuole e ospedali che governano la loro vita, plasmano la loro visione del mondo e stabiliscono per conto loro” che cosa è legittimo e che cosa non lo è? E concordano nel ritenere che “il curarsi da soli sia segno d’irresponsabilità, che lo studiare da soli non dia sicurezza” e che qualunque iniziativa comunitaria, se non è pagata dalle autorità competenti, sia una forma di aggressione o di sovversione?
Una delle accuse di Illich fu: “la scuola inizia al mito del consumo illimitato”.
«Questo mito moderno si fonda sulla convinzione che il processo debba inevitabilmente produrre cose di valore e che la produzione produca quindi necessariamente una richiesta. La scuola ci insegna che l’istruzione produce l’apprendimento. L’esistenza delle scuole produce la richiesta di scolarizzazione. Una volta che abbiamo imparato ad aver bisogno della scuola, tutte le nostre attività tendono ad assumere la forma di un rapporto clientelare con altre istituzioni specializzate. Una volta screditato l’autodidatta, ogni attività non professionale diventa sospetta. A scuola ci insegnano che un’istruzione valida è il risultato della frequenza; che il valore dell’apprendimento aumenta proporzionalmente all’input, alla quantità di nozioni immesse e, infine, che questo valore può essere misurato e documentato da voti e diplomi».
Rileggendo, non v’è nulla che appaia definitivamente superato, né sul piano sociale né su quello pedagogico. Non sono superate le differenze tra ricchi e poveri, anzi! L’effetto San Matteo non ha pause, né la scuola, né l’educazione sembrano aver posto freni: i ricchi sono diventati sempre più ricchi. E in pedagogia, le tecniche di Paulo Freire o l’educazione libertaria ( o incidentale) di Paul Goodman conservano molto della loro efficacia o del loro fascino.
In questo periodo in cui le esigenze pandemiche stanno dando spazio ai libri e tempo alla lettura riguardare Ivan Illich può aiutarci se non altro a prendere coscienza degli eccessi. Non ultimo a riflettere anche sulla ricerca e la messa a punto dei vaccini anti-Covid frutto sì d’intelligenza e di competenze, che non portano però il marchio della “scuola”, ma delle aziende che le produrranno!
Una presa di coscienza che non mancherà di toccare il concetto di scuola e la concezione dell’uomo per la quale essa esiste ed è “progettata”.
La conclusione di questo libro di mezzo secolo fa è un inno alla speranza.
Ivan Illich l’affida alla solida tradizione culturale dei miti greci e ai versi di Evgenij Aleksandrovič Evtušenko (1932-2017) il poeta noto peraltro per la sua passione sfrenata per il calcio e, certamente, per Maradona.
Abbiamo ora bisogno di un nome per chi crede più nella speranza che nelle aspettative. Abbiamo bisogno di un nome per chi ama più la gente dei prodotti, per chi crede che
Non ci sono uomini poco interessanti.
Sono i loro destini storie di pianeti.
Tutto, nel singolo destino, è singolare,
e non c’è un altro pianeta che gli somigli.
Abbiamo bisogno di un nome per chi ama la terra sulla quale tutti possono incontrarsi.
Ma se qualcuno è vissuto inosservato
– e di questo s’è fatto un amico –tra gli uomini è stato interessante
anche col suo passare inosservato.Abbiamo bisogno di un nome anche per chi collabora con il proprio fratello prometeico ad accendere il fuoco e a forgiare il ferro, ma lo fa per accrescere la propria capacità di assistere, curare e aiutare gli altri, sapendo che
Ognuno ha un modo luminoso tutto suo
E in esso c’è l’attimo più bello
E l’ora più angosciosa,
solo che noi non ne sappiamo niente!Propongo che questi fratelli e sorelle pieni di speranza vengano chiamati uomini epimeteici.
Nel mito greco, Epimeteo, fratello di Prometeo, sposò Pandora mandata dagli dei sulla terra con un vaso che conteneva tutti i mali, e in più, come unico bene, la speranza. “Colei che tutto dona” era dunque anche la guardiana della speranza. Epimeteo che significa “colui che capisce a posteriori” sposando Pandora, sposò la speranza di capire una buona volta ciò che è bene per l’uomo.
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