“In fine, mi comincia a stomacare il superbo disprezzo che qui si profila di ogni bello e di ogni letteratura […] In ogni modo, il privare gli uomini del dilettevole negli studi, mi pare che sia un vero malefizio al genere umano” [Giacomo Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli Italiani]
Si impone la necessità di una approfondita riflessione critica sui fattori evidenziati nel titolo di questo saggio, alla luce anche del leopardiano essere stomacati, ritornato purtroppo di attualità, a cominciare dall’effetto Invalsi sulla stampa quotidiana con conseguente ricaduta sull’immagine della scuola presso l’opinione pubblica.
I risultati dei test Invalsi sono stati lo spunto per una campagna di stampa caratterizzata da titoli apocalittici sul degrado della scuola con allarmanti riferimenti al cosiddetto gap del Sud rispetto al Nord nell’istruzione. Titoli apocalittici basati su un’accettazione acritica dell’operato dell’Istituto, restando tale operato generalmente ignoto nel metodo e nel merito agli autori degli articoli. Non a caso Alberto Asor Rosa ha esternato il sospetto o la quasi certezza di una diffusa ignoranza dei caratteri delle prove somministrate. Ignoranza che appare cara d’altronde al sibillino Istituto, trincerato nella propria autoreferenzialità in nome della presunta oggettività del proprio dogmatico andazzo di misurazioni, presentate metaforicamente come termometro, fotografia o radiografia dell’esistente.
Presa per buona la figura retorica della metafora come specchio della realtà, il giornalismo a stampa ha fatto ricorso a sua volta alla figura retorica dell’iperbole, facendo campeggiare sulle pagine l’allarmante diagnosi di un nuovo analfabetismo. Considerato senza retorica, il termine analfabeta significa, come è noto, “che non sa né leggere né scrivere” in senso assoluto. Quindi l’uso giornalistico della metafora risulta improprio, esorbitante e distrattivo, come è inevitabile nel contesto di un mezzo di comunicazione di massa (un uso proprio è invece quello di analfabetismo funzionale o di ritorno o strumentale o illetteratismo in un contesto rigorosamente scientifico, che l’Invalsi però, come si vedrà, non garantisce). L’improprietà di linguaggio produce l’effetto amplificatore di conferire agli esiti delle prove Invalsi una deleteria drammaticità con i suoi riverberi negativi sulla stima del nostro paese in sede nazionale e internazionale.
Eppure c’è chi concorda con Maria Pia Veladiano, che su “la Repubblica” in data 11 luglio 2019 asserisce che le prove Invalsi “per il sistema scolastico nazionale rappresentano una vera valutazione della validità del proprio lavoro” e c’è chi concorda con Claudio De Vincenti, che sul “Corriere della Sera” del 28 luglio 2019 le definisce “garanzia dell’omogeneità dei criteri di voto e quindi della reale equivalenza dei diplomi su tutto il territorio nazionale”, dal momento che sarebbero da stigmatizzare le “lodi troppo facili” attribuite ai candidati agli esami di maturità nelle contrade meridionali.
Quelle testé riportate sono affermazioni di estrema gravità, perché parlare di “vera valutazione” e di “lodi troppo facili” significa che la valutazione dei docenti sarebbe falsa e lassista, sebbene una cosa sia conseguire risultati in un test istantaneo e altra cosa sia conseguire risultati in un esame a conclusione di un corso di studi. In realtà le prove Invalsi, da non confondere con ogni plausibile metodo sperimentale, misurano soltanto la capacità di risolvere i test e non altro. Test affrontati in un ambiente artificiale, che niente ha a che vedere con la viva realtà della scuola.
Resta l’offesa arrecata alla dignità del corpo docente dall’uso disinvolto della parola nella sopra evocata campagna di stampa.
Occorre notare quì che i risultati presi in esame in sede giornalistica si riferiscono soltanto al settore linguistico con prevalente riguardo alla comprensione della lettura. Sorvolando sulla mancata considerazione di prove importanti come quelle di matematica (oggi l’unico linguaggio universale, come osserva Yuval Noah Harari, è quello matematico), conviene inquadrare la problematica linguistica nella sua prospettiva storico-evolutiva.
Inaugurata in forma ufficiale da Dante col trattato De vulgari eloquentia, la questione della lingua ha continuato ad essere dibattuta in sede letteraria attraverso i secoli, legata com’è da sempre alla ricerca di identità della nazione italiana aspirante ad essere una anche “di lingua” (Alessandro Manzoni). Qui ci si limiterà a ricordare alcuni momenti salienti del dibattito. Nella seconda metà del Novecento, poco più di mezzo secolo fa, Pier Paolo Pasolini suscitò clamore pubblicando su “Rinascita” del 26 dicembre 1964 il saggio Nuove questioni linguistiche, in cui ebbe a proclamare: “è nato l’italiano come lingua nazionale”. Per il parto avrebbe funto da ostetrica la “borghesia paleoindustriale” col suo linguaggio incipientemente “neocapitalistico” e “tecnocratico”.
Questa tesi rinfocolò il dibattito sulla lingua. Ne dà conto fra gli altri Stefano Rosatti dell’Università d’Islanda in Pasolini e il dibattito sulla lingua. Una “questione” ancora attuale? (disponibile in rete). Oronzo Parlangèli ritenne positivo che si fosse avviata una discussione aperta, auspicando che potesse essere di lunga durata. Già Tullio De Mauro aveva notato che l’industrializzazione andava introducendo elementi lessicali “estranei alla tradizione linguistica del paese”. Cesare Segre però, come anche Maria Corti, escludeva che “il cosiddetto linguaggio tecnologico” potesse rinnovare una lingua. Alberto Moravia da scrittore e Umberto Eco da semiologo furono tra quelli che individuarono il principale fattore di mutamento della lingua nei mass-media. Nei diversi interventi la lingua presa in esame era quella letteraria. Nel 1975 il GISCEL – Gruppo di Intervento e di Studio nel Campo dell’Educazione linguistica costituito all’interno della SLI – Società Linguistica Italiana elaborò le Dieci tesi per un’educazione linguistica democratica. Nel 2000 venne pubblicato il Manifesto in difesa della lingua italiana. Secondo Valeria Della Valle e Giuseppe Patota nel bel volume L’italiano. Biografia di una lingua, Sperling & Kupfer Editori, 2006, “l’italiano si difende da sé”. Purtroppo questa convinzione oggi non è più condivisibile.
Nell’era informatica la frammentazione e la dispersività caratterizzano gli usi linguistici a livello di una massa che supplisce alla povertà lessicale e alla precarietà sintattica con l’espressione rozza e volgare, orecchiata e riecheggiante a livello politico in vista del consenso che malauguratamente può assicurare. In Sulla lingua del tempo presente, Giulio Einaudi editore, 2010, Gustavo Zagrebelsky vede in questa miseria espressiva un “segno di malattia degenerativa della vita pubblica che si esprime, come sempre in questi casi, in un linguaggio stereotipato e kitsch, proprio per questo largamente diffuso e bene accolto”. Resta perciò di estrema attualità il proemio allo “Archivio glottologico italiano” (1873), in cui Graziadio Isaia Ascoli sottolineava lo stretto legame fra unificazione linguistica e attività mentale della nazione.
Nel solco di quel proemio si inseriscono oggi voci accorte come quella del professore Mario Giustizia, che su “la Repubblica” in data 1 agosto 2019 nella rubrica delle lettere interviene sotto il titolo Come possiamo dare più forza all’italiano, scrivendo fra l’altro:
“La decadenza delle competenze in lingua italiana segnala più la decadenza degli assetti civili della nostra società, e meno una responsabilità unica della scuola. Provocatoriamente, a che serve imparare l’italiano se lo spazio del dibattito pubblico è mortificato dalla continua ostensione di modelli comunicativi sciatti, inclini alla violenza verbale o all’offesa personale?”
La stampa quotidiana mostra la sua inadeguatezza, allorché non dà il giusto rilievo a questa decadenza civile, mentre proprio il giornalismo potrebbe supplire allo sporadico e deficitario impegno civile degli intellettuali, richiamandoli alla loro responsabilità etica, che consiste innanzitutto nell’esercitare uno spirito critico contro tutto ciò che favorisce il degrado della cultura. A tale Andrea Ichino, non a caso bocconiano, lo spirito critico dà fastidio. Sembra però che una certa confusione sussista in tante espressioni di suo conio, come quella secondo cui i test “danno una misura imperfetta degli apprendimenti ma confrontabile nel tempo e nello spazio”: infatti il fatto che la misure imperfette siano confrontabili non implica che esse non restino imperfette. Imperfezione che rende inservibile ai suoi stessi fini la metafora, alquanto infelice, del termometro, tanto più che lui stesso afferma che anche il termometro può sbagliare. Ossessionato com’è dalla misurazione, che finge di non confondere con la valutazione, giunge a proporre una riforma degli esami che ne sancirebbe la deformazione. A questo punto, dato che non siamo dogmatici come i fautori dell’Invalsi, facciamo appello allo spirito critico dei lettori, ricordando che tramite google è reperibile in rete ampio materiale utile per l’avvio di ulteriori riflessioni personali sull’argomento. Qui ci si limita a suggerire i seguenti riscontri: “Studenti contro Andrea Ichino: “Vuole distruggere l’Università”; “è ora che smettiamo di fare la guerriglia contro i test Invalsi”; “Esami di Stato, Ichino: così non servono e costano. Sì a test standardizzati con accesso diretto ad Università”; L’Invalsi è fallita e vi spiego perché; Perché siamo contro le prove Invalsi; Anche Invalsi ammette che il test non serve a nulla. Ma ormai i buoi sono scappati. In quest’ultimo articolo, dovuto ad Alex Corlazzoli, risalta il seguente passo:
“Le prove non possono misurare tutto. Ci sono competenze importanti – ad esempio quelle di comunicazione verbale e scritta, affettive e relazionali – che non sono valutabili con una prova standardizzata ma solo attraverso il contatto quotidiano che l’insegnante ha con i suoi allievi. Per questo le prove Invalsi non possono valutare globalmente uno studente né possono monitorarne e guidarne – come fa invece la valutazione degli insegnanti – il processo di apprendimento tenendo conto di tutte le variabili che inevitabilmente sfuggono alla valutazione standardizzata”.
La cosa notevole, come sottolinea Alex Corlazzoli, è questa: il passo citato non è dovuto ai critici dell’Invalsi, ma all’Invalsi stesso.
Così l’Invalsi è incappato nella medievale excusatio non petita, accusatio manifesta. Nonostante questo sussulto di consapevolezza, comincia ad essere ventilata la demenziale proposta di sottoporre a misurazioni di stampo invalsico la personalità degli allievi, che sarebbero in tal modo ancor più vicini alla condizione di cavie da laboratorio.
Esaltando l’Invalsi e non dando risalto alla problematica fin qui evocata, la stampa quotidiana è venuta meno alla deontologia giornalistica con conseguente danno all’immagine della scuola. Ciò che sorprende è che l’attendibilità dei test sia stata data per scontata. Per stabilite se i test siano più o meno validi, occorre invece entrare nel merito, come ci si propone di fare in altra occasione. Frattanto, per quanto riguarda la comprensione della lettura, ci limitiamo a stigmatizzare la riduzione dei testi letterari a materiale da sottoporre a dissezione anatomica e l’ignoranza della teoria dell’ambiguità dalla quale discende che è pratica abusiva sia in poesia che in prosa imporre di operare una scelta esclusiva scartando i cosiddetti distrattori. Quod erit demostrandum.
Rembrandt, Lezione di anatomia del Dottor Tulp. In sede critica si discute su possibili errori dell’artista.
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