L’esempio della metamorfosi in Dante e di Dante dovrebbe condurre l’umanità dal clamore planetario al silenzio interiore.
Uno spunto polemico
Cadono nel 2021 il Dantedì e le celebrazioni per i settecento anni dalla morte del sommo poeta. Iniziative canoniche destinate a suscitare anche esibizionismi. Mercato editoriale gonfiato con tirature ragguardevoli per le ennesime parafrasi e le ennesime biografie. Tanto parlare della Commedia, che ben pochi nel più vasto pubblico avranno letta per intero. Tanti studiosi a dare i loro contributi, eppure dal 2012, se non dal 2007, fino a pochi anni fa Dante era di nuovo esule da Firenze. Ecco la notizia riportata sul sito del corrierefiorentino.corriere.it:
«L’Università di Firenze non ha più docenti di filologia e critica dantesca. Non ci sono professori titolari di questa materia da almeno cinque anni, ma fino a pochi mesi fa il corso era comunque affidato a un ricercatore, mentre dal prossimo anno accademico l’insegnamento non rientra più nell’offerta formativa»
Di recente l’insegnamento filologico dantesco a Firenze è ripreso ad opera del Professore associato di Filologia della letteratura italiana Luca Azzetta. L’auspicio è che Dante torni così ad essere studiato seriamente, perché in difetto di filologia la serietà degli studi danteschi rischia di diventare aleatoria.
Dante è da onorare ogni giorno con l’impegno etico
Dante, se gli è consentito, ama frequentare le istituzioni scolastiche e universitarie. Il suo cammino riprende nelle aule e non per un solo giorno all’anno o ad ogni anniversario della nascita e della morte terrene. Essere ammirato come poeta non gli dispiace, anzi ne è orgoglioso. Però non gli basta. Il suo corruccio (risentimento, sdegno, pungente delusione) resta. Col suo poema intendeva indurre gli esseri umani a trasformarsi nel segno di un cristianesimo militante.
Non si può dire che lo onori chi si limita a celebrarlo, senza agire per un riscatto universale dello spirito umano. Purtroppo tanti autori moderni e contemporanei si sentono costretti a raffigurare il precipitare dell’umanità dal paradiso all’inferno, ove ristagna. Dante continua invece ad additarci il cammino di redenzione da lui percorso. E ci incita a seguirlo. La sua denuncia della corruzione politica ed ecclesiastica non è stata affidata alle invettive per restare disattesa. Chi lo usasse soltanto per una vanagloriosa ostentazione sarebbe un traditore di ogni speranza.
L’eredità mitologica
Prima di affrontare il tema della metamorfosi in Dante e di Dante, si rende opportuno un preambolo. È un tema che caratterizza la dimensione antropologica dell’antichità classica e non solo. Non è qui il caso di passare in rassegna la mitologia pagana alla ricerca di ogni fantastica trasformazione (chi lo voglia, può ricorrere a opere a stampa come Pierre Grimal-Carlo Cordié, Enciclopedia della mitologia, Garzanti, oppure a risorse disponibili in rete come mitologia.dossier.net). Risulta interessante soffermarsi piuttosto su quei riferimenti mitologici nella Commedia che già tanto attrassero i primi commentatori. Sono riferimenti densi di significato.
Nel corso di un importante ciclo di seminari tenutosi presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici in collaborazione con l’Accademia delle Belle Arti di Napoli nel 2018 l’argomento è stato studiato anche nei suoi aspetti epistemologici, morfologici, etici, estetici (gli atti seminariali sono stati poi destinati al volume collettaneo Metamorfosi a cura di Francesco Pisano per le edizioni dello stesso IISF). Agli aspetti sopra citati possiamo aggiungere i risvolti psicoanalitici. Si tratta di una tematica che si sviluppa all’interno del mito, coinvolgendo l’immaginazione, il senso magico, l’esigenza del meraviglioso.
Persistenza del tema della metamorfosi
La metamorfosi in letteratura si è perpetuata attraverso i secoli. In età moderna spicca il racconto La metamorfosi di Franz Kafka, in cui Gregor Samsa si ritrova trasformato surrealisticamente in scarafaggio. Surreale è la trasformazione narrata da Carlo Collodi in Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino. Nel Novecento siamo ancora attratti dal fascino del favoloso, come ci si presenta, ad esempio, nella raccolta Fiabe italiane di Italo Calvino. Così, ad esempio, in una fiaba popolare una rana, che sa di dover assumere forma umana e diventare sposa di un principe, nell’attesa può ripetere:
Se non m’ama, m’amerà
quando bella mi vedrà
Inutile qui ricordare quegli autori di fiabe a tutti noti per i loro personaggi fiabeschi ideati per bambini, e non solo. Il genere fiabesco sia nelle sua morfologia studiata da Vladimir Propp che nelle sue strutture studiate da Claude Lévy-Strauss conferma che la metamorfosi è una costante antropologica storicamente diffusa su scala planetaria. La paraletteratura se ne avvale per ravvivare le peripezie dei personaggi eroici: è il caso dei travestimenti di Magic Face, antagonista di Capitan Miki nella serie a fumetti ideata da Giovanni Sinchetto, Dario Guzzon e Pietro Sartoris. Le diverse arti ci ricordano che la metamorfosi coincide con la nostra stessa esistenza. Nel vivere, passiamo attraverso una serie di trasformazioni, come del resto l’intera realtà. L’identità continua ad essere nello stesso tempo persistenza e mutamento.
La metamorfosi come τόπος letterario nella Commedia
Innumerevoli i personaggi della Commedia (se ne può vedere il foltissimo elenco in ordine sia di apparizione che alfabetico su wikipedia). Oltre a quelli fra cronaca e storia, oltre a quelli biblici, compaiono quelli del mito. Sul piano intertestuale notiamo che Dante per i suoi riferimenti mitologici attinge largamente al repertorio classico e segnatamente a Omero, Virgilio, Lucano, Stazio, Ovidio. Nel momento stesso in cui attinge alle sue fonti Dante però si sente sempre animato dall’intento di evidenziare la propria originalità rispetto ad esse.
Uno dei canti in cui lo si nota con estremo risalto è il canto XIII dell’Inferno. Qui l’episodio virgiliano di Polidoro ha dato lo spunto per la vicenda del suicida Pier delle Vigne.
L’episodio virgiliano di Polidoro
Enea dopo la caduta di Troia, giunto nel suo peregrinare in Tracia, intende insediarvisi coi suoi compagni e i suoi cari. Per ornare un altare, svelle una prima, una seconda, una terza volta dei rami da un cespuglio. I rami iniziano e continuano a grondare sangue. Infine ne fuoriesce una voce, che lascia Enea stupefatto e sbigottito. È la voce di Polidoro, figlio di Priamo, ucciso a tradimento:
Tertia sed postquam maiore hastilia nisu
adgredior genibusque adversae obluctor harenae,
(eloquar an sileam?) gemitus lacrimabilis imo
auditur a tumulo et vox reddita fertur ad auris:
“Quid miserum, Aenea, laceras? Iam parce sepulto,
parce pias scelerare manus. Non me tibi Troia
externum tulit aut cruor hic de stipite manat.
Heu fuge crudelis terras, fuge litus avarum:
nam Polydorus ego. Hic confixum ferrea texit
telorum seges et iaculis increvit acutis”.
Tum vero ancipiti mentem formidine pressus
obstipui steteruntque comae et vox faucibus haesit” (Eneide, III, 37-48)
Dante non imita i tre tentativi di Enea.
Obbedisce a Virgilio che lo esorta a spezzare un ramo. Riprende però l’immagine della lacerazione e dello sgorgare del sangue, il lamento dell’anima, l’appello alla pietà.
L’episodio dantesco di Pier delle Vigne
Nell’episodio dantesco la scena si svolge in un bosco privo di sentieri, raffigurato con tinte tali da incutere timore:
Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e ‘nvolti;
non pomi v’eran, ma stecchi con tosco” (Inferno, XIII, 4-6)
Dante si ferma, smarrito, nell’udire da ogni parte lamenti, senza che si veda chi li emetta.
Crede che Virgilio creda che egli creda che siano persone nascoste nel folto del bosco a lamentarsi. Esortato da Virgilio a spezzare un ramo, per rendersi conto della vera origine dei lamenti, ode un grido provenire dal tronco dell’albero:
Allor porsi la mano un poco avante
e colsi un ramicel da un gran pruno;
e ‘l tronco suo gridò: “Perché mi schiante?
Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: “Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?
Uomini fummo, ed or siam fatti sterpi;
ben dovrebb’esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi”.
Come d’un stizzo verde ch’arso sia
da l’un de’capi, che da l’altro geme
e cigola per vento che va via,
sì da la scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue; ond’io lasciai la cima
cadere, e stetti come l’uomo che teme. (Inferno, XIII, 31-45)
La scena è divenuta drammaticamente incalzante.
Il tronco ha gridato. È divenuto color sangue per lo schianto. Ha rimproverato Dante per quella che gli è apparsa mancanza di pietà. È evidente l’intenzione del poeta di accentuare l’impressione di realismo della scena. Come di solito comporta la tecnica dantesca, studiata dall’insigne dantista Teodolinda Barolini in The Undivine Comedy. Detheologizing Dante, a ciò concorre il far rivivere al lettore una comune esperienza mediante una similitudine, quella di un tizzone riarso da un’estremità, che dall’altra geme e cigola: così dalla scheggia fuoriescono insieme parole e sangue. Dopo che Dante l’ha lasciata cadere, restando timoroso di fronte all’inquietante e sconcertante fenomeno, interviene Virgilio, che spiega all’anima del suicida perché abbia spinto Dante a spezzare il ramo:
“S’elli avesse potuto creder prima”,
rispuose ‘l savio mio, “anima lesa,
ciò c’ha veduto pur con la mia rima,
non averebbe in te la man distesa,
ma la cosa incredibile mi fece
indurlo ad ovra ch’a me stesso pesa”. (Inferno, XIII, 46-51)
La rielaborazione dantesca del testo virgiliano sottintende l’impegno di emulare e superare il maestro.
Altrove la propria coscienza di essere superiore artisticamente alle fonti classiche sarà invece apertamente esternata. Ciò avviene in maniera eclatante nel canto XXV dell’Inferno. La concezione dantesca dell’abisso infernale evidenzia in tal modo una valenza artistica che non si riscontra nel panorama studiato da Georges Minois nella sua Piccola storia dell’inferno edita in traduzione italiana da il Mulino.
Dante proclama con orgoglio la propria superiorità artistica
Siamo nella settima bolgia dell’ottavo cerchio, destinata ai ladri. A un certo punto sopraggiungono dei ladri fiorentini. Mentre Agnello Brunelleschi, Buoso de’ Donati e Puccio Sciancato chiedono a Dante e Virgilio chi essi siano, sopraggiunge un serpente esapodo: è Cianfa Donati, che avvinghia di slancio Agnello Brunelleschi, sì da formare un solo corpo mostruoso che poi s’allontana. Arriva quindi in forma di serpentello Francesco Cavalcanti, che trafigge l’ombelico di Buoso de’ Donati.
Inizia così una stupefacente e orripilante trasformazione di entrambi. Ed è a questo punto che Dante rivendica il proprio primato poetico. Nel canto IV dell’Inferno si era detto “sesto fra cotanto senno” ossia poeta savio insieme con Omero, Virgilio, Orazio, Ovidio, Lucano. Ma non si trattava per lui di sentirsi sesto come in una graduatoria di cui occupasse l’ultimo posto. Dante voleva dire soltanto che era entrato a far parte di quella eletta schiera di poeti, senza alcuna subordinazione.
Ora infatti si vanta di surclassare i poeti classici nel trattare il tema della metamorfosi:
Taccia Lucano omai là dove tocca
del misero Sabello e di Nasidio,
e attenda a udir quel ch’or si scocca.
Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio,
ché se quello in serpente e quella in fonte
converte poetando, io non lo’nvidio,
ché due nature mai a fronte a fronte
non trasmutò sì ch’amendue le forme
a cambiar lor matera fosser pronte. (Inferno, XXV, 94-102)
Inizia così una straordinaria esibizione di maestria poetica, al punto di poter essere considerata un unicum in tutta la poesia universale. Il serpente e il dannato, l’uno di fronte all’altro, si scambiano le nature: il serpente assume sembianze umane e il dannato si tramuta in serpente.
Questa metamorfosi viene descritta nel suo andamento dinamico.
È una prova di abilità tale da sembrare incredibile:
Insieme si rispuosero a tai norme,
che ‘l serpente la coda in forca fesse,
e ‘l feruto ristrinse insieme l’orme.
Le gambe con le cosce seco stesse
S’appiccar sì, che n’poco la giuntura
non facea segno alcun che si paresse.
Togliea la coda fessa la figura
che si perdeva là, e la sua pelle
si facea molle, e quella di là dura.
Io vidi intrar le braccia per l’ascelle,
e i due piè de la fiera, ch’eran corti,
tanto allungar quanto accorciavan quelle.
Poscia li piè di rietro, insieme attorti,
diventaron lo membro che l’uom cela,
e ‘l misero del suo n’avea due porti.
Mentre che ‘l fummo l’uno e l’altro vela
di color novo, e genera ‘l pel suso
per l’una parte e da l’altra il dipela,
l’un si levò e l’altro cadde giuso,
non torcendo però le lucerne empie,
sotto le quai ciascun cambiava muso.
Quel ch’era dritto, il trasse ver’ le tempie,
e di troppa matera ch’in là venne
uscir le orecchie de le gote scempie;
ciò che non corse in dietro e si ritenne
di quel soverchio, fé naso a la faccia
e le labbra ingrossò quanto convenne.
Quel che giacea, il muso innanzi caccia,
e li orecchi ritira per la testa
come face le corna la lumaccia;
e la lingua, ch’avea unita e presta
prima a parlar, si fende, e la forcuta
ne l’altro si richiude; e ‘l fummo resta.
L’anima ch’era fiera divenuta,
suffolando si fugge per la valle,
e l’altro dietro a lui parlando sputa. (Inferno, XXV, 103-138)
La maestria dell’autore risalta ancor più se si confrontano le terzine rimate col seguente tentativo di parafrasi, che però è un oltraggio al testo poetico.
Il serpente divide in due la coda, mentre il dannato salda insieme i piedi e congiunge le gambe con le cosce formandone un tutt’uno. La coda del serpente va assumendo la forma umana che nel dannato sta divenendo teriomorfa. Nel contempo la pelle di questi va divenendo morbida e quella dell’altro si fa dura. Le braccia del dannato si ritirano nelle ascelle e le zampe del serpente, allungandosi quanto le braccia si accorciano, si attorcigliano, diventando il membro virile, mentre dal membro virile del dannato vengono fuori due zampe. Nel fumo i due si scambiano i colori. Nel dannato nasce il pelo e il pelo sparisce nel serpente. Ormai il serpente si leva in piedi e il dannato piomba al suolo.
L’uno e l’altro continuano a fissarsi negli occhi.
Quello che si è levato in piedi trae il muso verso le tempie e dalla sovrabbondanza di materia si formano le orecchie, il naso, le labbra, mentre il dannato, piombato al suolo, sporge avanti il muso, ritira le orecchie dalla testa come fa la lumaca con le corna, biforca la lingua, così le biforcazioni della lingua del serpente diventano la lingua della nuova figura umana che da esso si è formata. Infine il serpente in cui si è mutato il dannato striscia veloce sibilando e il serpente divenuto anima lo insegue con lo sputo.
La metamorfosi come metafora del senso cristiano dell’esistenza
Ma l’intuizione che costituisce il motivo profondo e il senso stesso della Commedia è la metamorfosi dell’io. Veniamo ad essere coinvolti in un continuo mutamento spirituale. Ogni momento dell’esistenza deve essere dedicato alla presa di distanza dal peccato e all’avvicinamento alla redenzione. Fin dall’inizio la vita si configura come itinerarium mentis in Deum.
L’intima tensione che anima i versi di Dante ci spinge verso il silenzio dell’umano linguaggio al quale subentrerà l’armonia delle sfere celesti. La metamorfosi suprema è l’ineffabile “trasumanar”, qui evocato come esempio che ciascuno è chiamato a esperire con l’ausilio della grazia divina:
Trasumanar significar per verba
non si poria; però l’essemplo basti
a cui esperienza grazia serba. (Paradiso, I, 70-72)
L’esempio è quello di Glauco, mitico pastore della Beozia.
Venuti a contatto con un’erba, i pesci da lui pescati riprendono vigore e riguadagnano il mare. Gustata quell’erba, è spinto a immergersi nelle acque. Accolto dagli dei marini, anch’egli diventa un dio:
Vix bene conbiberant ignotos guttura sucos,
cum subito trepidare intus praecordia sensi
alteriusque rapi naturae pectus amore;
nec potui restare diu “repetenda” que “numquam
terra, vale!” dixi corpusque sub aequora mersi.
di maris exceptum socio dignantur honore. (Ovidio, Metamorfosi, XIII, 944-949)
L’exemplum della metamorfosi non solo in Dante, ma anche e soprattutto di Dante, e non del corpo, ma dell’anima, dovrebbe condurre l’umanità dal clamore planetario al silenzio interiore, per meditare intimamente sul senso morale da dare all’esistenza.
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