Educare a leggere e scrivere di matematica per aumentarne comprensibilità e comunicabilità.
Geometrie senza limiti è il titolo di un libro di bella letteratura matematica. È del 2018 e i suoi autori sono Laura Catastini e Franco Ghione.
Leggere e scrivere di matematica non sono attività che possano dirsi abituali e comuni. Leggere: di norma chi lo fa è seduto ad una scrivania e va avanti con il sussidio di un foglio di carta e una matita. E scrivere? Il nostro Giacomo Leopardi, che se ne intendeva, asserì: io escludo dal bene scrivere i professori di matematica e fisica. In effetti, sono attività che dovrebbero essere maggiormente curate a scuola e nelle università. Dovrebbero far parte dell’insegnamento. Costituirne specifici obiettivi di apprendimento. La comprensibilità e la comunicabilità della disciplina migliorerebbero e aumenterebbe la sua fruibilità. Per inciso, in un Syllabus definito nel 2009 da un gruppo di esperti che lavorò al MIUR, si pensò ad un adeguato spazio da dare a richieste del tipo: “si illustri”, “si spieghi”. E quesiti siffatti per alcuni anni sono stati proposti nelle tracce delle prove scritte di matematica degli esami di Stato di liceo scientifico.
Tornando a Giacomo Leopardi, una delle accuse che egli rivolgeva ai matematici è che essi si “ristringono” al loro sapere specifico e poco concedono all’immaginazione e alla cura dei modi di dire. Ignorano, in effetti, che la vera novità è proprio nell’efficacia delle espressioni. Ecco, è probabile che anche a Leopardi qualche soddisfazione avrebbe potuto darla la lettura del libro:
Geometrie senza limiti. I mondi non euclidei di Laura Catastini e Franco Ghione.
È ricco di belle espressioni e di un modo di dire che non disdegna, per dirla sempre alla Leopardi, il vago e l’impreciso, come i triangoli troppo ottusi, le linee brevissime, qualcosa che non va sempre dritto e, ancora, le rette curve: un ossimoro? Ma è già nel titolo la novità: Geometrie senza limiti.
Un titolo tutto al plurale. Una carica di energia espressiva che libera e sollecita più decolli semantici. Una folla di pensieri che, come raggi da un punto, s’irradiano in tante direzioni diverse. Ciascuna diretta a correre verso specifiche costruzioni di significati, immagini, combinazioni di idee e configurazioni. Una prima direzione è verso l’immaginazione di spazi privi di termini, frontiere, confini. Spazi interminati, com’è nello stupendo idillio dell’Infinito.
Ma uguale sollecitazione spinge nella direzione di cogliere la varietà dei frutti del pensiero logico. Prima di tutto il potere della negazione! Ovvero il porsi del “perché no?” del nuovo spirito scientifico descritto da Gaston Bachelard. Quindi gli spazi ad n dimensioni e i tanti mondi possibili. L’indeterminatezza delle misure. La dilatazione e contrazione di tempi e distanze. La sconfinata varietà delle “forme” di cui solo una parte si è riusciti finora a dominare formalizzandola in termini matematici. E tra le forme s’impone sempre la sfera. E tanto da permeare del suo significato la trama del libro e costituirne, si direbbe, finanche il punto di arrivo.
La cura del linguaggio c’è tutta, il lessico è ricco e vario, non ripetitivo, né canonico.
Il racconto è condotto con tutti gli ingredienti che sono comuni alla buona didattica: ordine, vocabolario, gusto, significato. Una caratteristica che lo rende utile all’insegnamento, anche come sussidio di lettura. Nella scuola e nelle università, nei corsi delle lauree magistrali, nei master e in genere in tutte quelle occasioni in cui il discorso è sulla matematica, la sua organizzazione e la sua comunicazione.
È un libro che finisce per intrigare e, «essere intrigati – scrivono gli autori – dalla matematica vuol dire non riuscire a smettere di pensare». E, infatti, la lettura è un continuo indurre a ri-ordinare e riformulare, a ritrovare significati e gusti e il piacere di assaporarli.
Ecco allora che già dalle prime pagine, senza che vi siano menzionati, si fa vivo il ricordo di Giovanni Prodi e Vinicio Villani. Due personaggi cioè che hanno influenzato il mondo della didattica e apposto le loro firme su tanti documenti ufficiali: dai programmi della scuola media del 1979 ai programmi delle scuole elementari del 1985 (insieme a Mauro Laeng e Michele Pellerey) e successivamente ai programmi del PNI e Brocca.
Il ricordo è di una Storiella estiva che i due pubblicarono sulla rivista Archimede qualche decennio fa.
Prodi e Villani – che Laeng affettuosamente chiamava i Castore e Polluce della didattica matematica – in quella storiella confessarono di provare imbarazzo e perplessità per come era dimostrato sui libri di testo tradizionali che gli angoli alla base di un triangolo isoscele sono uguali, ma di essere rimasti ancora più sorpresi nell’apprendere che quella era la dimostrazione autentica di Euclide, passata alla storia come il pons asinorum degli studenti di una volta. L. Catastini e F. Ghione non riportano quella dimostrazione, ma chiunque legga il primo capitoletto di questo loro libro capisce che a quella proposizione Euclide ha potuto attribuire il numero d’ordine 5 proprio per quella scelta dimostrativa.
Un libro dunque da leggere.
Utile, ad esempio, anche a chi, ai tanti storici lamenti sul mancato o cattivo apprendimento della matematica a livello pre-universitario, aggiunge quanto sia grave che i giovani dei corsi di laurea magistrale o post laurea non ricordino il primo e il secondo teorema di Euclide in nessuna delle loro formulazioni abituali, né in termini di equivalenza né con riferimento alla similitudine.
Un lamento inutile, e tempo sprecato, sottratto cioè a cose ben più importanti. A spiegare, ad esempio, che quei teoremi, primo e secondo, non esistono! Non esistono negli Elementi. Euclide non li ha mai formulati. Sono il frutto del lavoro di qualche secolo fa di sistemazione didattica dei capitoli dell’equivalenza e della similitudine delle figure piane. Questo neppure è scritto nelle pagine del libro, ma è la loro lettura a riportarlo alla mente. Ed è questa possibilità di “distendersi” oltre, di allontanarsi, di realizzare altri legami e connessioni, di richiamare altre immagini, idee, concetti, procedure, la ricchezza del libro, la sua utilità per chiunque si interessi di matematica, della sua comunicazione, del suo insegnamento.
Il libro sviluppa un racconto che è somma di altri racconti, tanti!
Un’avventura intellettuale lunga secoli che si compone di molte altre avventure vissute da persone diverse, appartenute ad epoche diverse ed ambienti diversi, a credi e religioni diverse. Diversità che il racconto spinge continuamente a richiamare. Non le sacrifica e lascia a chiunque di debordare dal corso fondamentale, di fermarsi o di volare ad altro, a ciò che non è scritto, per poi tornare al punto del decollo. Il lettore esperto e quello meno esperto ne fanno così un libro da tenere sempre tra le mani. Entrambi pienamente appagati, i primi nel soddisfare anche la vanità di individuare cose non dette, i secondi, talvolta, con l’essere condotti a scoprirle.
Libro da leggere anche a tratti e riprendendo il filo in un verso o nell’altro, ricostruendone la continuità narrativa piuttosto che seguirla nell’ordine delle pagine e della successione dei capitoli, i cui titoli danno comunque il senso di organizzazioni parziali, di “carte locali”, che per incollamento sulla superficie espositiva forniscono la trama globale del libro:
Euclide e il nostro mondo. Menelao e l’ambiente sferico. La vana speranza (quella di farsi una ragione del V postulato). L’idea di curvatura: Eulero e Gauss. La geometria assolutamente vera. Modelli concreti di mondi non euclidei e, per finire, Senza limiti.
L’inizio è una felice miscela di astrazione e concretezza, una matematica corporea o delle sensazioni umane.
Felix Klein, il più famoso dei professori di matematica della sua epoca, il padre delle Matematiche Elementari da un punto di vista superiore, è l’autore prescelto per questo significativo avvio: «I tre gruppi di rappresentazioni che si legano ai concetti posti a base della teoria del continuo (Analisys situs) della geometria metrica (o metrica differenziale) e della proiettiva, si possono riattaccare immediatamente a tre gruppi di sensazioni: rispettivamente alle sensazioni generali tattili-muscolari, a quelle del tatto speciale e della vista». Coerentemente, il primo paragrafo parte con dritto, curvo, verticale, inclinato, aggettivi che denotano stati «che ogni corpo umano riconosce attraverso i sensi»: se sei «verticale» non sei «inclinato». E dunque la definizione di Euclide dell’angolo piano rettilineo come
«l’inclinazione reciproca di due linee rette su un piano, le quali si incontrino tra loro e non giacciano in linea retta».
Definizione lodata anche da Umberto Eco. In una delle sue famose bustine di Minerva ne sottolinea il carattere operativo e l’efficacia nel far capire anche cos’è un angolo retto:
«Vuoi sapere che cosa è un angolo retto? E io ti dico come farlo, ovvero la storia dei passi che devi fare per produrlo. Dopo lo avrai capito. Tra l’altro, la storia dei gradi puoi impararla dopo, e in ogni caso solo dopo che avrai costruito quel mirabile incontro tra due rette. Questa faccenda a me pare molto istruttiva e molto poetica e rende più vicino l’universo della fantasia, dove per creare storie si immaginano mondi, e l’universo della realtà, dove per permetterci di capire il mondo si creano storie».
Stupenda la percezione di U. Eco e il suo riferimento alla fantasia e alla realtà, coppia antitetica che attiene alla matematica al pari delle grandi opposizioni concettuali che la permeano, coll’avvicinarle e legarle entrambe alle storie.
E una delle più grandi storie è ancora quella che si racconta nel nome di Euclide.
L. Catastini e F. Ghione ne parlano nel primo capitolo Euclide e il nostro mondo. Un mondo ovviamente che è solo localmente euclideo. Ne parlano come di «una grandiosa cattedrale». Ne tratteggiano l’architettura e le strutture portanti fatte di definizioni, postulati, nozioni comuni e, ancora, ne delineano l’interna e ordinata disposizione delle proposizioni, dalla prima: la possibilità di costruire il triangolo equilatero, all’ultima, la quattrocentosessantacinquesima: l’esistenza dei cinque poliedri regolari. Ultimo teorema di Euclide, proposizione di chiusura, essa costituisce – per citare Attilio Frajese (già Direttore Generale del Ministero P.I.) e Lamberto Maccioni (docente di Latino e Greco al liceo Umberto I di Napoli ), curatori dell’edizione degli Elementi – :«l’arrivo alla meta dopo un viaggio lungo e faticoso. I cinque poliedri regolari vengono in un certo senso riuniti […] Ed ecco un semicerchio, il cui diametro è quello della sfera nella quale i poliedri regolari, tutti e cinque, vanno iscritti». Il disegno dell’Universo.
Il grande racconto di Geometria rimane così aperto, non termina.
Apre le sue frontiere, conduce alla sfera. È infatti la strada della superficie sferica che il libro imbocca. Gli autori procedono nel solco già segnato da Teodosio di Bitinia (II sec. a. C.) e Menelao (vissuto a cavallo tra il I e il II sec. d. C). Il discorso sboccia cioè in un’operazione di trasposizione ambientale che ha un grande valore scientifico e pedagogico: sostituisce all’immaginaria superficie piana di Euclide la superficie sferica, idealizzazione della superficie terrestre, “il nostro mondo”. Ecco allora le nuove definizioni, le rette sferiche che sono circonferenze massime, quelle cioè che «tra tutte le circonferenze che si possono tracciare sulla sfera, hanno la minima curvatura […] sono le più dritte e quindi sono quelle che, dritte e tese al massimo, uniscono lungo la superficie della sfera due punti dati, con la minima distanza». Ed ecco i triangoli sferici, e la prova della non esistenza di figure simili nè di “quadrati”, cioè quadrilateri con 4 lati uguali e 4 angoli retti e, ancora, l’assenza di una coppia di rette parallele. E poi si va avanti con le considerazioni sul parallelismo, il V postulato e la vana speranza di volerlo «dimostrare», dedurlo cioè dagli altri postulati per il desiderio di fare della geometria una scienza a priori. Una speranza nutrita con forza, che ha fatto scorrere fiumi d’inchiostro ed è crollata solo quando Carl Friedrich Gauss, l’ultimo a scrivere in latino i suoi teoremi egregi ed elegantissimi (pagg. 114-121), János Bolyai e Nikolaj Ivanovič Lobačevskij dimostrarono che gli altri postulati della geometria euclidea ammettevano una interpretazione coerente che violava il V e forniva un modello di geometria iperbolica, che localmente, cioè in ogni dominio “infinitesimale”, diventava euclidea. In altre parole, il fatto che uno spazio iperbolico ammette, in ognuno dei suoi punti, uno spazio euclideo “tangente”.
Il racconto è avvincente, prosegue.
Non abbandona la sfera, anzi ne prolunga la presenza (pagg. 158-164 ) con la pseudosfera di Eugenio Beltrami e la sua cuffia della nonna, ottenuta incollando tra loro 124 pezzi di pseudosfere; l’ipersfera e le loro superfici; il disco di Henri Poincaré; le sfere celesti di Dante Alighieri e le loro proprietà e configurazioni di cui il poeta chiede spiegazione a Beatrice non comprendendo perché «l’esemplo [il mondo sensibile] e l’esemplare [il mondo ultrasensibile] non vanno d’un modo». Su tutto ciò sono svolte considerazioni che hanno un valore culturale e didattico indiscutibile.
La sfera, la più perfetta delle figure.
Tanto perfetta che Deus est sphaera cuius centrum ubique et circumferentia nusquam. Immagine che Giordano Bruno utilizza per spiegare la sua percezione dell’infinito e che ritroviamo nel libro a pag. 190: «Noi diciamo che possiamo cogliere col senso l’infinità dell’Universo, perché il senso sposta sempre il centro dell’orizzonte verso la periferia dell’orizzonte così che fa essere centro qualsiasi punto della periferia».
«Se – come scrivono gli autori – gli Elementi di Euclide si concludono classificando tutti i possibili corpi regolari dello spazio», qual è la conclusione alla quale questo libro tende?
Esprimere il senso della ricerca matematica oggi e renderlo comprensibile?
Una ricerca scientifica cioè mobilitata a «sondare tutti i possibili spazi, tutte le possibili varietà indipendentemente dagli oggetti che esse possano contenere, con l’obiettivo di classificarle e scrivere una sorta di catalogo, una galleria di forme a disposizione degli studiosi»? Certamente sì: gli autori mirano alla spiegazione e ci riescono bene anche nei confronti del contenuto, attualissimo, di questo ultimo capitolo che hanno denominato appunto Senza limiti. Un capitolo dedicato ad illuminare il percorso compiuto e la meta raggiunta com’è per il viaggio di Dante: Un punto vidi che raggiava lume.
Un capitolo che ha un protagonista d’eccezione: Bernhard Riemann,
«uno dei più grandi matematici che siano mai esistiti, uno di quelli che hanno più profondamente sentito (o divinato) l’unità essenziale della matematica».
Sono parole di Jean Dieudonné, non presenti in queste pagine che si stanno leggendo, ma la sostanza del giudizio è unanime, invariante per autore. Si potrebbe dire – afferma un altro francese, Jean Petitot della scuola di Renè Thom – che:
«l’opera di Riemann costituisce il primo esempio d’uno stato “eccitato” globale dell’universo matematico».
Senza limiti è dunque il capitolo conclusivo, l’ultimo del libro.
È dedicato al genio di Riemann. Alle sue idee, alla sua dissertazione di abilitazione:
Ipotesi che stanno alla base della geometria
Fu letta il 10 giugno del 1854 nell’Aula Magna dell’università di Göttingen «alla presenza dell’intero consiglio di facoltà e di Gauss ormai settantasettenne».
È il capitolo dell’illimitatezza. Delle varietà n-estese. Dell’idea di considerare “spazio” a tutti gli effetti ogni spazio ottenuto per incollamento di modelli o carte locali, cioè pezzi di spazio ambiente. Un’idea che sovverte radicalmente l’abituale intuizione di spazio ovvero che la sua struttura globale si ottenga per diretta estensione della sua struttura locale.
Ed è anche il capitolo della dialettica locale/globale, che è tra le più avvincenti opposizioni concettuali che rendono viva la matematica e ne costituiscono nel contempo – come si è espresso Renè Thom – l’aporia fondatrice.
Una coppia antitetica peraltro così pervasiva dell’universo culturale e scientifico da aver riguardato anche la pedagogia della matematica, la sua didattica. E c’è una profonda analogia con quanto si è detto sull’idea di spazio che non si può sottacere. L’assenza infatti di una struttura globale canonica della matematica rende sempre meno significativo il ricorso ai globalismi. Al globalismo di Klein, ad esempio, come anche ad organizzazioni didattiche pretenziosamente complete, preferendosi le riduzioni al locale e le organizzazioni parziali e puntando decisamente al dominio translocale delle parti. Saldandole in una struttura cognitiva unitaria, una robusta rete fatta di solidi legami e connessioni. Fu questa la scelta operata per l’insegnamenti della geometria già nei piani di studi Brocca.
Nelle pagine finali 215-217, gli autori si concedono, e invitano il lettore ad unirsi a loro, uno sguardo a ritroso, come chi ha raggiunto la sommità di un colle e vuole rintracciare i segni dell’itinerario percorso:
« Se ci soffermiamo un istante a rivedere dall’alto la storia che abbiamo raccontato non possiamo non riconoscere l’enorme progresso che il nostro pensiero ha compiuto nell’indagare lo spazio e la sua natura geometrica, a partire da Euclide e dallo spazio euclideo, il solo che pensavamo possibile.
L’indagine matematica ci ha mostrato infiniti altri spazi dalle forme più diverse ma con caratteristiche comuni oggi ben chiare, caratteristiche che possiamo accettare o respingere, liberi di scegliere e immaginare nuove forme internamente coerenti che cambiano la nostra immaginazione dello spazio e di ciò che è possibile, forme che ritroviamo anche, e non può essere diversamente, nelle diverse espressioni del pensiero creativo: dalla pittura, all’architettura, alla letteratura».
Ma le ultime parole sono per lui, per Euclide:
«Gli Elementi di Euclide, per la loro semplicità, armonia e bellezza, restano così ancora la materia prima, gli elementi essenziali insostituibili con i quali può prendere forma la geometria, anche quella non euclidea, come Poincarè aveva dimostrato con il suo disco».
Non vi poteva essere conclusione più coerente.
Quando si racconta un fatto, una storia, si finisce inevitabilmente per compiere delle scelte e tagliare qualcosa. Si pone l’accento su un aspetto tralasciandone altri. Si punta ad una conclusione piuttosto che ad un’altra. È questo decisamente un limite che quando l’oggetto della comunicazione è la matematica diventa più evidente e forte. Ed è una caratteristica della comunicazione della matematica, di ogni sua sistemazione narrativa, che nell’insegnamento diventa però la vera negatività perché trasmette dogmatismo ed autoritarismo: malgrado le loro evidenti e chiare limitazioni, sembrano, senza limiti di presunzione, dire: questa è la via, così s’insegna, così si apprende.
Questo libro è diverso. Non trasmette presunzioni di sorta e non mira a indicare vie alternative e regie. Non si attarda a fomentare divisioni, e le geometrie, anche la geometria euclidea e la non euclidea, non vi appaiono né nemiche né in competizione conflittuale. Ogni punto del libro, come più volte si è detto, vi è punto di accumulazione, sorgente di pensiero e di riflessione, di critica e di esposizione che è, in questo caso, una riuscita compenetrazione di scienza e pedagogia. Libro in definitiva che si colloca in un’altra sfera, quella della bella letteratura matematica e, cosa notevole, di matrice italiana.
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