Dante arrivista e plagiatore? Le offese a Dante del tedesco Arno Widmann diffuse dalla stampa dovute solo a traduzioni poco attente.

Dante nel disegno di Mariangela Cacace
Dose di richiamo del Dantedì.
Il fervore celebrativo del secondo Dantedì è stato funestato da un clamoroso casus belli. Sul quotidiano “la Repubblica” è apparso un articolo dal titolo “Dante, l’incredibile attacco dalla Germania: arrivista e plagiatore”. Ne è scaturito un dibattito che nel suo arroventarsi ha visto contrapposti due schieramenti: da una parte chi nell’articolo di Arno Widmann non ha ravvisato offesa alcuna al sommo poeta, dall’altra chi per leso amor di patria ha portato il caso innanzi al Parlamento europeo. Si è giunti quasi ai limiti dell’incidente diplomatico. Dal canto suo Arno Widmann ha replicato che non aveva alcuna intenzione di offendere e che riconosce la grandezza di Dante.
Per agevolare il compito di chi volesse formarsi una personale opinione sull’argomento, lo scrivente ha ritenuto di porgere una sua traduzione dell’articolo incriminato. Eccola.
Dante Alighieri fiorentino morì in esilio a Ravenna il 14 settembre 1321, quindi perché un articolo su Dante proprio oggi? L’anno scorso il 25 marzo è stato introdotto in Italia come Dantedì. Il più grande poeta italiano deve essere commemorato ogni anno in questa data. Perché il 25 marzo? Perché si dice che proprio in questo giorno, un Venerdì Santo dell’anno 1300, Dante abbia iniziato il suo viaggio attraverso l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso. Dante ama giocare con i numeri. La sua grande opera poetica, la Divina Commedia, nella traduzione di Kurt Flasch inizia con le seguenti parole: “In der Mitte unseres Lebenswegs kam ich zu mir in einem dunklen Wald. Der rechte Weg war da verfehlt”. Poiché non è stata registrata una data di nascita, in base a questa indicazione si è giunti a concludere che Dante è nato nel 1265. È stata tramandata una data di battesimo, un Sabato Santo, il 26 marzo. Per inciso, fu battezzato col nome di Durante, da cui è derivato Dante. Con ciò ci ritroviamo nel bel mezzo della venuta di Dante al mondo. L’Italia lo loda come uno di coloro che hanno innalzato la lingua nazionale ai vertici della letteratura alta. In un certo senso, è stato lui a creare la lingua per comporre la sua opera. Lingua che, a dirla in breve, è diventata quella dei suoi lettori e poi quella italiana. Nessuno oggi si esprimerebbe così, ma così veniva detto sessant’anni fa a ogni scolaretto italiano. I bambini sapevano però che era difficilissimo capire Dante. I suoi testi dovevano decifrarli. La Divina Commedia – e non solo le edizioni scolastiche – erano costellate di note che non solo spiegavano le singole parole, ma aiutavano anche i moderni lettori a orientarsi nella sintassi di Dante. Eppure era italiano, non latino. Si discuteva di Dio e del mondo al più alto livello filosofico e teologico in “volgare”, cioè nella lingua del popolo. Vale a dire nella lingua che i nostri genitori hanno parlato quando ci hanno generati, la lingua in cui siamo cresciuti, in cui i nostri sentimenti si sono articolati per la prima volta. Nello stesso tempo c’è la lingua in cui impariamo a capire ovvero la lingua della scienza che ci dice il mondo come è e come dovrebbe essere. Quando leggiamo Dante, pensiamo ben a ragione alla dicotomia tra lingua madre e latino. Eppure ciò non è sufficiente, se si vuol capire l’Italia, se si vuol capire la situazione dell’italiano nel XIII secolo. La campagna contro i Catari in Occitania nella Francia meridionale (1209–1229) aveva distrutto gran parte della Provenza e consentito a un cospicuo numero di trovatori provenzali di cercare rifugio presso corti straniere. Questi autori esiliati aiutarono i poeti madrelingua in molte contrade d’Europa. L’Italia era in ritardo rispetto a questo sviluppo. Tanto che si può dire: “La prima poesia d’arte in lingua madre in Italia è stata scritta in provenzale”. Brunetto Latini, maestro e amico di Dante, scrisse la sua enciclopedia dal titolo “Livre du Trésor” in francese. Non solo perché lo pubblicò mentre si trovava in esilio in Francia, ma anche perché sapeva che avrebbe trovato un maggior numero di lettori tra i francesi. In Italia, sulla scorta dei modelli provenzali, i testi nella lingua madre erano inizialmente poesie d’amore. Come i trovatori, anche i poeti italiani cantavano donne reali o immaginarie, le innalzavano al paradiso e le inondavano di metafore. Non diversamente avviene nella “Divina Commedia” di Dante. Non abbiamo idea alcuna se la Beatrice cantata dall’autore sia mai esistita. Ma sappiamo che – come per i suoi modelli – era per lui molto importante, oltre che mettere in opera tutta l’arte dell’eloquenza, creare un tale calore sentimentale da far mancare il respiro ai destinatari ideali, lettori e lettrici. Si tende però a trascurare una notevole differenza: i trovatori erano cantori popolari, dei cui capolavori sono state tramandate fino a noi solo le nude parole, mentre Dante mirava a ottenere lo stesso effetto senza accompagnamento musicale. Si è sempre sentito in competizione. Anelava ad essere superiore a ogni altro poeta. Si trovava a suo agio nello sfidare l’impossibile. Nella tradizione musulmana c’è il racconto del viaggio di Maometto in Paradiso. Ce ne sono rapporti, commenti e traduzioni in latino e in italiano a partire dal 1360. L’arabista spagnolo Miguel Asin Palacios nel 1919 pubblicò un ampio studio in cui sosteneva che Dante conoscesse l’antico testo arabo e ne traesse spunto. La maggior parte dei dantisti considera questa tesi un prodotto dell’immaginazione lanciata a briglia sciolta. Essi vedono messa in forse l’originalità del loro idolo. Ma si farebbe torto a Dante sminuendo le sue ambizioni agonistiche. Così come ha fatto sembrare superata la poesia provenzale, avrebbe potuto sognare anche di superare l’ascensione al cielo musulmana con quella cristiana. L’opera poetica, che comprende più di 14.000 versi, mira a costruire dopo oltre 1300 un ponte fino alla “Eneide” di Virgilio. Per un’impresa del genere necessita un ego smisurato. È una fabbrica di versi che una schiera di oltre 600 personaggi è in grado di animare attraverso una grata di terzine in modo che sia chiaro ogni volta se uno faccia parte dei buoni o dei cattivi. La semplice intenzione di assegnare parenti e conoscenti alle camere dell’inferno o ai dipartimenti del purgatorio, di incasellare spiriti magni e potenti politici di cui non si sa quasi nulla, non sarebbe stata sufficiente per un simile lavoro. Per questo compito era richiesto il piacere. Il piacere di giudicare. Il Maestro si rivolge benevolo a Francesca da Rimini e al suo amante Paolo e dipinge la scena dei due che si abbracciano su un libro e sulla passione amorosa in esso descritta. Ora il piacere è di ogni lettore. Ma perché mai sono finiti entrambi all’inferno? Dante lo chiede e si sente dispiaciuto per Francesca. È un brano fantasioso. In un testo apocrifo del Nuovo Testamento un discepolo dice di provare pietà per i dannati. Una simile frase non esiste in tutto il Nuovo Testamento. Non è ammessa. Dante dice che è stata la decisione di Dio a mandare i due amanti all’inferno e non si dice d’accordo con questa decisione. La critica diventa più severa se si pensa che non è stato Dio a mandare all’inferno Paolo e Francesca, ma il poeta Dante Alighieri, che apparentemente l’ha fatto solo per muovere un rimprovero a Dio. L’aldilà è uno strano mondo. A parte alcuni personaggi mitologici e angeli caduti o ascesi al cielo, ci sono solo esseri umani. Ogni altra cosa è abolita. Nessun albero fiorisce. Non vi è alcun essere vivente. È, a dirla in tono pacato, il paesaggio di un ufficio. Tutto adeguatamente arredato. Molto è stato scritto sul monte della purificazione, ad esempio. Ma per quanto riguarda gli interni? Una stanza tutta per te? Appartiene al design degli interni celeste o infernale? Risalta poi qualcos’altro. Si è parlato molto di Beatrice. Nel corso dell’escursione diventa filosofa e diventa Maria. È l’elevata stilizzazione dell’adorata “domina” come era di moda nella poesia trobadorica. Ma la consorte di Dante e i loro figli non compaiono. Non interessano. Per la scoperta della vita coniugale come via verso la beatitudine bisognerà aspettare la Riforma Protestante di Martin Lutero. La curiosità di Dante era immensa. E non divagava. Era concentrata sulle opere sulle quali stava lavorando. Lo si può vedere molto bene nel modo in cui viene presentato Odisseo nel ventiseiesimo canto dell’Inferno. Uno o due secoli dopo Dante l’umanesimo italiano coniò il termine “ulissismo” per indicare la viva curiosità in cui l’Occidente da quel momento in poi si è riconosciuto. Odisseo in Dante ha un’apparizione non tanto breve in cui narra del suo tentativo di oltrepassare lo Stretto di Gibilterra. Narra che un uragano colpì la sua nave e poi nella traduzione di Hartmut Köhler “und dann schlug über uns das Meer zusammen”. Un finale drammaticamente brusco che non ha mancato di avere un suo impatto fino ad oggi. Al viaggio di Dante nell’aldilà, composto probabilmente tra il 1307 e il 1320, si dovrebbe affiancare un altro diario di viaggio, quello di Marco Polo. L’uomo d’affari veneziano (1254–1324) utilizzò un periodo di detenzione carceraria (1298–1299) e l’aiuto di uno scrittore di romanzi cavallereschi per il suo bestseller mondiale scritto in francese: “Il libro delle meraviglie del mondo”. Questo diario fa da contraltare al viaggio immaginario di Dante nell’aldilà. In entrambi trovano commistione finzione e verità, dubbio e credenza. Ma per quanto sia corretto parlare di Dante come “poeta del mondo terreno”, sarebbe del tutto assurdo trascurare la sua pretesa profetica, il suo senso religioso della missione. Le meraviglie del mondo non sono un argomento a lui congeniale. Almeno non nella sua opera somma. La Quaestio de aqua et terra è un trattato di cosmologia e filosofia naturale. La natura è uno dei miracoli di Dio, ma Dante resta distaccato rispetto a quell’entusiasmo per le cinture variopinte col quale l’imprenditore veneziano guarda ai mongoli, ai cinesi, insomma agli usi e mestieri dei popoli. È importante però ricordare l’uno e l’altro, altrimenti si potrebbe pensare che l’ossessione religiosa di Dante fosse la caratteristica di un’epoca e non qualcosa che distingueva lui solo. Finora non ho detto parola alcuna sui ghibellini e sui guelfi, nessuna sul perché Dante fu processato, sul perché fu costretto a lasciare Firenze e sul perché rifiutò di tornare nella sua città natale quando ne ebbe la possibilità a determinate condizioni. Un altro confronto è consentito per questo Dantedì. Il poeta anglo-cattolico T. S. Eliot pubblicò nel 1929 un trattatello su Dante. La traduzione tedesca la si può reperire nel volume dell’Edizione Suhrkamp “Was ist ein Klassiker?” In esso spiega in primo luogo che Dante è di facile lettura, cosa già abbastanza sorprendente. Ma ha ragione. Almeno nel modo in cui lo legge lui. Lo paragona con Shakespeare. Confronta con molta attenzione le singole metafore. Probabilmente lo fa perché la cosa più ovvia era così naturale per lui che non voleva accentuarla. Ma uno sguardo a Shakespeare mostra dove risiedano le nostre difficoltà con Dante. L’amoralità di Shakespeare, la sua rappresentazione di tutto ciò che è – perfino l’immaginazione del poeta! – ci sembrano anni luce più moderne dell’intenzione di Dante di avere un’opinione su tutto, di trascinare tutto davanti al tribunale della sua moralità. L’immensa opera è lì nella sua interezza soltanto per consentire al poeta di anticipare il Giudizio Universale, compiendo l’opera di Dio col separare il grano dal loglio”.
In rete gli interventi pro e contro Arno Widmann non mancano.
Basta digitare Arno Widmann in google. Si dovrebbe tener presente che gli opposti pareri non tengono conto di un’opportunità. Quella di esercitare sulle affermazioni dello studioso incriminato lo spirito critico, mantenendo un atteggiamento esente da estemporanea irritazione. Anche da parte di chi possa ritenere che non siamo di fronte a uno studioso di alta statura.
Ecco alcune affermazioni non contestabili.
Difficoltà del testo di Dante, che ha bisogno di una mole notevole di chiose informative ed esplicative per essere decifrato. Aspirazione di Dante ad essere considerato sommo poeta e convinzione di esserlo. Pretesa di Dante di interpretare la giustizia divina nel collocare le anime nell’inferno o in purgatorio o in paradiso. La Commedia come anticipazione del Giudizio Universale in una prospettiva escatologica ed apocalittica.
Ecco alcuni equivoci.
Non risponde al vero che a differenza dei trovatori Dante rese la sua poesia autonoma dalla musica. Si pensi allo “amoroso canto” di Casella che canta la canzone “Amor che nella mente mi ragiona” di Dante (Purgatorio, II, 106-133). E si pensi a tutti gli echi musicali che risuonano nella scrittura della Commedia come, ad esempio, nel Cielo di Marte (Paradiso, XIV, 118-123). C’è confusione nella lettura che lo studioso fa dell’episodio di Paolo e Francesca: se in Dante autore vi è “il piacere di giudicare”, perché Dante personaggio dovrebbe essere “dispiaciuto” per la sorte di Francesca?
Beatrice non è “filosofa” e non è “Maria” e nemmeno “elevata stilizzazione” della “domina” della poesia trobadorica:
è sublimazione spirituale che la rende teologa. Quella che lo studioso definisce “ossessione religiosa” che distinguerebbe Dante dalla sua epoca è in realtà intensa testimonianza della fede cristiana all’interno del cristianesimo medievale. Che Shakespeare sia più moderno di Dante è affermazione discutibile e la si potrebbe confutare anche alla luce di Richard Schaub e Bonney Gulino Schaub, Il potere di Dante, Libreria Pienogiorno, 2021, in cui i due psicoterapeuti intendono spiegare “come salvarsi la vita con la Divina Commedia”.
Concludo ribadendo che il vero oltraggio a Dante per me consiste nella pretesa di celebrarlo senza impegnarsi per inverare nella realtà il suo anelito etico.
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Biagio Scognamiglio (Messina 1943). Allievo di Salvatore Battaglia e Vittorio Russo. Già docente di Latino e Greco e Italiano e Latino nei Licei, poi Dirigente Superiore per i Servizi Ispettivi del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Ha pubblicato fra l’altro L’Ispettore. Problemi di cambiamento e verifica dell’attività educativa.
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