Jean-Jacques Rousseau: per l’insegnamento della matematica Euclide non va bene, l’algebra ha bisogno della geometria e questa di figure disegnate con esattezza.

Jean-Jacques Rousseau (1712-1778)
La matematica nelle Confessioni di Jean-Jacques Rousseau.
A leggerle, Le confessioni di J.J. Rousseau non è che entusiasmino molto. Spesso coinvolgono, altre volte annoiano, altre ancora provocano reazioni di fastidio, se non di irritazione, per questo o quest’altro pensiero o comportamento del Personaggio, come il ripetuto atto di abbandonare al brefotrofio i figli che gli nascono. Reazioni però tutto sommato contenute e in parte attese. Rousseau ha preavvertito che “non è migliore” ma è diverso dagli altri e il suo desiderio è di presentarsi così com’è, “in tutte le pieghe” della sua vita.
Chi è Rousseau?
Inizia a descriversi così: “Nacqui a Ginevra nel 1712 dal cittadino Isacco Rousseau e dalla cittadina Susanna Bernard. Poiché era minima l’eredità toccata a mio padre da una fortuna molto mediocre, divisa tra quindici figli, egli per vivere non contava che sul suo lavoro di orologiaio, nel quale, in verità, era molto abile. Mia madre, figlia del ministro Bernard, era ricca, era saggia e bella, e mio padre non la ottenne senza stenti. Il loro amore cominciò quasi con la loro vita; dagli otto ai nove anni tutte le sere passeggiavano insieme su La Treille, a dieci non potevano più separarsi”.
“La storia – egli scrive – mostra assai più le azioni che gli uomini, poiché essa non coglie questi che in certi momenti determinati, nei loro vestiti di gala; essa non espone che l’uomo pubblico, il quale si è accomodato per essere visto: non lo segue in casa, nel suo studio, in famiglia, in mezzo ai suoi amici; non lo dipinge che quando fa bella comparsa; è piuttosto il suo abito che la sua persona che essa dipinge.”
Le Confessioni, allora, un merito ce l’hanno: inquadrano e raccontano la storia di un uomo e di un periodo in modo diverso e originale. E vi si ritrovano, nella loro umanità, tanti illustri personaggi, tanti geni, tutti uniti nel tempo e nello spazio, nei salotti o attorno ad un tavolo da pranzo: Diderot e d’Alembert, Condillac e Voltaire, D’Holbach e Grimm, Clairaut e Hume, e altri ancora.
Il merito maggiore è quello di mostrare con l’ambiente culturale dell’epoca le radici del pensiero filosofico e pedagogico dell’autore, le sue esperienze di vita e di lavoro, le cose che ha studiato, come le ha apprese e da quali autori.
E veniamo alla matematica, iniziando dalla notissima frase della piccante Giulietta: Lascia le donne e studia la matematica.
È Rousseau a provocarla. È indeciso, paralizzato dalla forte preoccupazione di contrarre qualche malattia venerea, ma alla fine riceve tale sferzante consiglio da parte della giovanissima, bellissima e seducente cortigiana incontrata a Venezia nel periodo in cui era segretario all’Ambasciata di Francia presso la Serenissima.
Quella frase, così nota e abusata, decontestualizzata, ha finito per veicolare il significato di una matematica che non si presta alle frivolezze e agli umori cangianti delle donne, insomma non fatta per le donne. Idea che era abbastanza comune a quei tempi, espressa dallo stesso Rousseau, in particolare nell’Emilio, con espressioni quali: “La ricerca delle verità astratte e speculative, dei principi, degli assiomi nelle scienze, tutto quello che tende a generalizzare le idee, non è di competenza delle donne…le quali non hanno neppure abbastanza giustezza ed attenzione per riuscire nelle scienze esatte” [Emilio, 636-637]
Ma Rousseau ha studiato la matematica?
In verità agli studi si era dedicato seriamente e sistematicamente non proprio prestissimo. Nel 1732, a vent’anni, aveva ottenuto, a seguito di una raccomandazione, un posto di lavoro nell’Ufficio del Catasto istituito da Vittorio Amedeo II di Savoia. “Due o trecento uomini, sia agrimensori, che chiamavano geometri, sia scrivani, che chiamavano segretari, furono addetti a questo lavoro”. Rousseau fu assunto tra questi ultimi ed il lavoro lo impegnava nell’esecuzione di numerose e lunghe operazioni aritmetiche per le quali, per quanto – egli scrive – “non fosse necessaria una aritmetica troppo astrusa, ce ne era già abbastanza perché qualche volta mi trovassi imbarazzato.”
Jean-Jacques non vuole sfigurare e così, per vincere queste difficoltà, compra dei libri di aritmetica, e alla fine dichiara: “la imparai bene, poiché la imparai da solo”.
È una delle sue prime e fondamentali massime pedagogiche. Con il lavoro e con lo studio ha appreso che “l’aritmetica pratica va oltre quello che si pensi, quando si vuole essere veramente precisi. Vi sono delle operazioni di estrema lunghezza, tra le quali ho visto smarrirsi dei bravi geometri. La riflessione insieme alla pratica dà delle idee chiare. E allora si trovano dei metodi abbreviati, la cui scoperta lusinga l’amor proprio, la cui esattezza soddisfa l’intelligenza, e che fanno fare con piacere un lavoro per sé stesso ingrato. Mi dedicai così bene, che non vi era questione solubile con le sole cifre che mi imbarazzasse; e ora che, giorno per giorno, si cancella dalla mia memoria tutto quello che sapevo, questo acquisto in parte vi si conserva ancora, dopo trent’anni di interruzione. Alcuni giorni fa durante un viaggio […], assistendo alla lezione di aritmetica dei figli del mio albergatore, ho fatto, senza errori e con un piacere incredibile, una operazione tra le più complicate”.
C’è, in quello che Rousseau scrive, molto di ciò che la matematica ancora rappresenta e ispira:
- dà idee chiare ed evita di smarrirsi per “oscuri labirinti”;
- esalta l’individualità lusingando nell’amor proprio: ciascuno risolvendo un problema o dimostrando un teorema è portato a sentirsene l’autore (diranno Giacomo Leopardi e, dopo, Michel Serres);
- allena e soddisfa la mente;
- dà piacere.
Lo studio lo prende. Chiusa l’esperienza lavorativa, studiare diventa la sua occupazione. È autodidatta: dedica l’intera mattina a tre sole discipline: filosofia, geometria e latino. Dopo pranzo, quando l’applicazione è più debole, rivolge le sue letture alla storia e alla geografia.
Su quali testi apprende la matematica?
Tra le sue letture cita le Ricreazioni Matematiche di Ozanam[i] e le Oeuvres mathematiques di Jacques Rohault (1620-1675)[ii] che eredita da uno zio con tutte le annotazioni che questi vi aveva registrato e alle quali riconosce il merito di essere state “eccellenti spiegazioni che mi fecero amare le matematiche”. Quelle annotazioni gli ritornano molto utili, visto che apprende senza la viva voce di un maestro (l’espressione è di Giacomo Leopardi che nella sua formazione è molto rousseauiano) ma solo dai libri. I libri sono dunque essenziali; ma non è che vi fosse tanto da scegliere. Rousseau opta per la geometria di Bernard Lamy[iii], il quale da allora divenne uno dei suoi autori favoriti. E anche per l’algebra prese sempre il testo del Lamy per guida. Quando fu più esperto, studiò la Scienza del calcolo del padre Reyneau[iv], e successivamente la sua Analisi dimostrata, che però “ho solo sfogliato”.
La matematica e le dimostrazioni in generale richiedono un’applicazione e una concentrazione totali e prolungate, cui fa fatica a corrispondere, cosicché confessa di dubitare “di essere nato per lo studio; infatti un’applicazione prolungata mi stanca a tal punto che mi è impossibile occuparmi con intensità dello stesso argomento per una mezz’ora di seguito, specialmente seguendo le idee di un altro”.
Non si riconosce una buona memoria, per cui nello studio della geometria avverte la necessità di ritornare spesso sui teoremi, di ripetere e memorizzare le definizioni e le dimostrazioni.
È questo che gli impedisce di gustare la geometria di Euclide il quale cerca più la catena delle dimostrazioni che il legame delle idee ed è per questo che gli riescono più congeniali le opere del Lamy. Si tratta di testi che ebbero una notevole diffusione all’epoca, in voga per più decenni e oggetto di molte ristampe.
La prima edizione della geometria è del 1685 e il titolo completo dell’opera è:
Les élémens de géométrie. Ou de la mesure du corps, qui comprennent tout ce qu’Euclide a enseigné. L’altro manuale è: Élémens des mathematiques ou traité de la grandeur en general qui comprend l’Aritmetique, l’Algebre, l’Analyse et les principes de toutes les sciences qui ont la grandeur pour objet, del 1704.
Come si vede, quando Jean-Jacques le studiava, non erano proprio opere recentissime, anche perché, allora, mondo della ricerca e mondo della didattica non erano così separati e inoltre, mentre le pubblicazioni nuove richiedevano un periodo più o meno lungo di rodaggio per essere intese e divulgate, i manuali conservavano la loro validità per decenni.
Per capire la matematica, occorre capire il significato di ciò che si fa.
Con riferimento al suo personale processo di apprendimento, confessa: “Non sono mai stato abbastanza bravo da capire bene l’applicazione dell’algebra alla geometria. Non mi piaceva questo modo di fare, senza vedere quello che si fa”. E aggiunge, da esperto musicista qual è, che risolvere un problema di geometria con le equazioni lo vedeva alla stregua del suonare un’aria girando la manovella di una ghironda.
E ancora: “La prima volta che con il calcolo trovai che il quadrato di un binomio era composto dal quadrato di ciascuna delle sue parti e dal doppio prodotto dell’una per l’altra, malgrado l’esattezza della mia moltiplicazione non volli credere niente, finché non ebbi fatta la figura. Non che non avessi grande passione per l’algebra, dato che non considera che quantità astratte, ma applicata allo spazio volevo vedere l’operazione sulle linee; diversamente non capivo più niente”.
Sono confessioni significative per l’insegnamento, proprie peraltro di quel periodo generalmente anticartesiano e portato a vedere globalmente l’algebra come una finzione, anche se di successo, visto il ruolo di via regia avuto nella costruzione del calcolo infinitesimale di Newton e di Leibniz.
Altrettanto significative sono le sue confessioni nell’ambito della geometria che è nata dall’avarizia, come scrive nel Discorso delle Scienze e delle Arti.
Ed ecco il suo punto di vista didattico: “Ho detto che la geometria non era alla portata dei fanciulli: ma è colpa nostra. Noi non sentiamo che il loro metodo non è il nostro, e che ciò che diventa per noi l’arte di ragionare non deve essere per essi se non l’arte di vedere. Invece di dar loro il nostro metodo, faremmo meglio a prendere il loro; poiché il nostro modo d’imparare la geometria è tanto un affare d’immaginazione quanto di ragionamento.
Quando la proposizione è enunciata, bisogna immaginare la dimostrazione, cioè trovare di quale proposizione già conosciuta quella deve essere una conseguenza, e, di tutte le conseguenze che si possono trarre da questa medesima proposizione, scegliere precisamente quella di cui si tratta. In questo modo il ragionatore più esatto, se non è inventivo, deve rimanere in asso. Per cui cosa ne deriva? Che invece di farci trovare le dimostrazioni, ce le ispirano; che invece d’insegnarci a ragionare il maestro ragiona per noi e non esercita che la nostra memoria”.
E precisa:
“Fate delle figure esatte, combinatele, ponetele l’una sull’altra, esaminate i loro rapporti; troverete tutta la geometria elementare procedendo di osservazione in osservazione, senza che si tratti né di definizioni, né di problemi, né di alcun’altra forma dimostrativa all’infuori della semplice sovrapposizione. Quanto a me, non pretendo d’insegnare la geometria ad Emilio, è lui che me l’insegnerà; io cercherò i rapporti ed egli li troverà; poiché io li cercherò in modo da farglieli trovare. Per esempio, invece di servirmi di un compasso per tracciare un cerchio, lo traccerò con una punta all’estremità di un filo girante su di un pernio.
Dopo ciò, quando vorrò confrontare i raggi fra loro, Emilio si burlerà di me, e mi farà comprendere che lo stesso filo sempre teso non può aver tracciato distanze diseguali. Se voglio misurare un angolo di sessanta gradi, descrivo dal vertice di quest’angolo non un arco, ma un circolo intero: poiché con i fanciulli non bisogna mai sottintendere nulla. Trovo che la porzione del circolo compresa fra i due lati dell’angolo è la sesta parte del circolo.
Dopo di ciò descrivo dallo stesso vertice un altro circolo più grande, e trovo che questo secondo arco è ancora la sesta parte del suo circolo. Descrivo un terzo circolo concentrico, sul quale faccio la stessa prova; e la continuo su nuovi circoli, fino a che Emilio, offeso dalla mia stupidità, m’avverte che ogni arco, grande o piccolo, compreso dal medesimo angolo, sarà sempre la sesta parte del suo circolo, ecc.”
È sorprendente quel riferimento alla stupidità: portato a vedere, guidato dal docente, Emilio vede la verità allo stesso modo in cui era stato portato a vedere lo schiavo nel Menone di Platone. È un aspetto dell’attivismo pedagogico che sarà sviluppato dalla scuola Svizzera e in particolare da Pestalozzi e più tardi da Maria Montessori e che in ambito matematico sarà teorizzato in Italia da Federigo Enriques e dalla nipote Emma Castelnuovo.
Insegnare la matematica è insegnare a sperimentare, congetturare, osservare, dedurre.
È insegnare a vedere e a ragionare. Espressioni di moda ancora oggi come “matematica come scoperta” o “saper vedere in matematica” trovano in Rousseau il loro più convinto sostenitore. E così anche il metodo laboratoriale, il ricorso all’intuizione, all’immaginazione e ai materiali poveri (caratteristici della pedagogia di Maria Montessori) e alla geometria del foglio di carta trovano fermi riferimenti nell’opera di Rousseau. Ad esempio, egli condanna il fatto che nell’insegnamento della matematica si trascuri l’esattezza delle figure, la si supponga e tutto si rimetta alla dimostrazione. Non va bene! Non è vero, cioè, come spesso ancor oggi si dice, che la geometria sia l’arte di ragionare correttamente su figure errate.
Rousseau vuole l’esattezza delle figure e aggiunge:
“Fra noi, invece, non si parla mai di dimostrazione; la nostra faccenda più importante sarà di tirare delle linee ben dritte, ben giuste, ben eguali; di fare un quadrato assai perfetto, di tracciare un circolo ben rotondo. Per verificare l’esattezza della figura, la esamineremo attraverso tutte le sue proprietà sensibili; e questo ci fornirà l’occasione di scoprirne ogni giorno delle nuove. Piegheremo col diametro i due semicerchi; con la diagonale, le due metà del quadrato: confronteremo le nostre due figure per vedere quella i cui contorni convengono più esattamente, e per conseguenza la meglio fatta; disputeremo se questa eguaglianza di spartizione debba avere sempre luogo nei parallelogrammi, nei trapezi, ecc. Si cercherà talvolta di prevedere il risultato dell’esperienza prima di farla, ci si studierà di trovare delle ragioni, ecc.”
Insomma: “La geometria non è per il mio allievo se non l’arte di servirsi bene della riga e del compasso”. L’accortezza del docente sta nel non portarlo a confondere la geometria col disegno, dove “non adopererà né l’uno né l’altro di questi strumenti”.

Pantheon di Parigi
Jean-Jacques Rousseau morì nel 1778 nei dintorni di Parigi.
In vita, per le sue idee di uguaglianza fra gli uomini, di primato dei sentimenti e della sovranità popolare nonché della educazione naturale, era stato spesso giudicato un pericoloso sovversivo, le sue opere condannate e lui più volte cacciato dalle città in cui aveva trovato domicilio. La Rivoluzione ne volle le spoglie nel Pantheon di Parigi accanto a Voltaire.
In conclusione, la didattica della matematica deve molto a Rousseau e alla sua opera, che ancor oggi gli sopravvive nei centri di ricerca didattica di Neuchâtel e, in particolare, di Ginevra, dove all’istituto che porta il suo nome, fondato da Claparede nel 1912, hanno lavorato per migliorare le nostre conoscenze di epistemologia genetica Jean Piaget e grandi matematici quali Benoit Mandelbrot, Mark Kac, Seymour Papert.
NOTE
[i] J. Ozanam, Recreations mathematiques et physiques (Parigi, 1694). È citato insieme ad altre opere analoghe da Michele Cipolla nel suo magistrale articolo «Matematica Ricreativa» del Vol.III, p2^ dell’Enciclopedia delle Matematiche elementari e Complementi (Hoepli, ris. Anastatica 1972)
[ii] J. Rohault era stato un seguace delle idee di Cartesio e i suoi testi erano molto seguiti per l’insegnamento della filosofia naturale e secondo M. Kline anche a Cambridge, l’università di Newton, fino ai primi decenni del XVIII secolo.
[iii] Bernard Lamy (1640-1715). Gesuita, convinto cartesiano, compagno di studi di Malebranche, insegnò in varie università e per lunghi anni. Le sue doti didattiche risaltano dai numerosi saggi e manuali e dal loro duraturo successo. Condivide con Varignon il merito di aver introdotto la legge del parallelogramma per la composizione delle forze.
[iv] Charles-René Reyneau (1656- 1728) come Lamy proveniva dall’Oratorio e fu docente conosciuto ed apprezzato. I due volumi della sua Analyse démontrée furono pubblicati nel 1708 e si ispiravano alle idee di Johann Bernoulli portate in Francia da de l’Hôpital e altri. Il lavoro ebbe altre edizioni e fu il testo su cui d’Alembert apprese la matematica.
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