Il Dantedì fra omaggio e oltraggio, un bilancio del nuovo Dantedì. La Lettera apostolica Candor lucis aeternae di Papa Francesco.
Sono proprie della poesia di Dante
tutte le forme di energia note alla scienza moderna
Osip Mandel‘štam
Come non celebrare Dante
Il Dantedì come i medicinali ha i suoi effetti collaterali anche gravi. Eccone alcuni da segnalare in un bugiardino dantesco aggiornato. C’è l’immagine di Dante su un uovo di Pasqua. In una vignetta Beatrice vaccina Dante. Un docente esalta un disegnatore che raffigura Dante come eroe tipo Uomo Ragno. Troviamo Dante effigiato in fumetti e coinvolto in videogiochi. A detta di alcuni ricercatori di Filologia Dantesca dell’Università di Napoli la conoscenza di Dante sarebbe favorita dai rapper. Dopo settecento anni dalla morte di Dante viene presentato in televisione un suo discendente. Si va in cerca di particolari piccanti nella biografia del poeta. Al desiderio di conoscenza subentra il pettegolezzo. Un comico si diletta a sfornare barzellette del tipo PD eguale Partito di Dante.
Il significato autentico del messaggio poetico viene ignorato. L’antagonismo costitutivo di tale messaggio ne risulta neutralizzato. La propaganda mediatica tratta Dante alla stregua di un prodotto pubblicitario da smerciare. Un lettore propone un parco con inferno sotterraneo per visitatori tipo Disneyland e un giornalista lo asseconda immaginando che il cerchio dei golosi possa fungere da zona ristorazione.
Eccessi di fervore celebrativo
Il nuovo Dantedì si avvicinava. Sul quotidiano a stampa “la Repubblica” il 16 marzo 2021 nella rubrica delle lettere Botta e risposta sotto il titolo di per sé eloquente Se in Italia siamo tutti dantisti Francesco Merlo si trovava ad affrontare lo stupore del professor Massimiliano Capodacqua per questa recente affermazione dell’insigne studioso Gennaro Sasso:
“Dante è uscito dagli interessi della cosiddetta borghesia colta. Dalla cultura italiana. E non basta un anniversario per quanto importante a rinnovarne l’interesse”.
Eppure sul sito internet del medesimo quotidiano il 25 marzo 2021 si legge: “Il Dantedì unisce l’Italia”. Con un titolo incredibilmente retorico si evadono le domande cruciali sul destino dell’opera dantesca. Chi sono i lettori di Dante? E cosa significa leggere Dante? La lettura più diffusa è quella autorizzata da un Benedetto Croce in vena di mutilare il poema sacro in omaggio alla sua estetica, che contempla la malaugurata scissione fra poesia e non poesia. C’è chi si compiace del riduzionismo crociano in nome di una lettura ritenuta diretta e ingenua da contrapporre alla mole delle ricerche erudite dei dantisti. Così sulla Commedia vengono esercitate forme di dissimulata censura. Il poema sacro continua ad essere ridotto a lacerti. La sua carica esplosiva viene disinnescata.
Il messaggio dantesco viene ridotto a puro e semplice godimento estetico.
Godimento che secondo un’opinione di ascendenza romantica sarebbe assicurato dall’Inferno in misura maggiore rispetto alle altre cantiche. Pare addirittura che l’intera opera si riduca all’episodio di Paolo e Francesca. Eppure Umberto Eco aveva invitato i lettori a recuperare il fascino sublime della poesia del Paradiso. Per non dire che la condizione attuale di tanta parte dell’umanità appare assimilabile piuttosto alla condizione del Purgatorio. Lo aveva messo in rilievo l’indimenticato maestro Salvatore Battaglia nei suoi Preliminari per Dante.
Intanto il fervore celebrativo induceva a frettolose prese di posizione.
Si era giunti fin quasi all’incidente diplomatico. Il caso nacque a seguito di un articolo di Arno Widmann sul quotidiano Frankfurter Rundschau. Il titolo Dante: Die Guten ins Töpfchen, die Schlechten ins Kröpfchen sembrò irriguardoso. Deriva dalla fiaba di Cenerentola dei fratelli Grimm. Cenerentola vuole andare al ballo. La matrigna maligna rovescia nella cenere un piatto di lenticchie. Le promette che la farà andare al ballo se in due ore riuscirà a separarle tutte dalla cenere. Cenerentola ci riesce con l’aiuto di colombelle, tortorelle e tutti gli uccellini del cielo, avendo detto loro: “Die Guten ins Töpfchen, die Schlechten ins Kröpfchen”, esortandole cioè a separare le lenticchie buone dalle cattive.
Cosa vuol dire questo titolo redazionale?
Secondo Arno Widmann l’intento di Dante di separare le anime buone dalle cattive equivale alla pretesa di sostituirsi a Dio nel giudizio. È Dante che decide se un’anima meriti salvezza o dannazione. Si può anche concedere che ricorrere scherzosamente alla fiaba per spiegare il poema sia di cattivo gusto (peraltro mai così cattivo come tutte le sopra ricordate offese massmediatiche a Dante nel Dantedì). Resta però la sostanza del discorso: la Commedia è una sorta di anticipazione del Giudizio Universale.
Come negarlo?
Il poema dantesco ha un carattere soteriologico ed escatologico riconosciuto dalla critica. Sennonché abbiamo assistito a un’insurrezione di politici, giornalisti e studiosi italiani come per un caso di lesa maestà. Insurrezione che non vi fu quando il nostro Guglielmo Gorni definì Dante un “visionario fallito”. L’imputato tedesco è accusato di essere partito all’attacco come in una partita di calcio Germania-Italia. Avrebbe insinuato fra l’altro che Dante non sarebbe stato il padre della lingua italiana. Gli avrebbe rinfacciato mancata originalità per essere stato preceduto dall’autore di un poema mistico arabo. Avrebbe giudicato la sua opera inferiore a quella di Shakespeare.
Accuse che si riducono a forzature interpretative dovute a una lettura prevenuta e affrettata dell’articolo di Arno Widmann. Per un giudizio equilibrato sull’articolo citato si veda invece l’intervento di Davide Turrini Dante “arrivista e plagiatore”? Ecco cosa c’è scritto davvero sul giornale tedesco a cui ha risposto il ministro Franceschini nella versione online del giornale Il fatto quotidiano. L’accusa di mancata paternità della nostra lingua è insussistente. Il viaggio nell’aldilà è un τόπος letterario presente già in Omero e Virgilio. Defunti che parlano delle loro sorti ai vivi sono presenti nell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, che trasse spunto dall’Antologia Palatina. Quanto alla pretesa superiorità di Shakespeare su Dante, tale giudizio non è imputabile a Arno Widmann, essendo stato formulato a suo tempo dal critico letterario Harold Bloom, docente alla New York University e alla Yale University, nel suo canone occidentale:
“Sebbene morto, bianco, maschio ed europeo, Dante è la più viva di tutte le personalità sulla pagina, in gara con l’unico che gli sia superiore, Shakespeare […]”
Arno Widmann si limita a osservare che Shakespeare sarebbe più vicino alla sensibilità moderna, senza giudicarlo per questo superiore a Dante.
Come celebrare Dante
Nel Dantedì 2021 Il Presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella, intervistato da Marzio Breda per il Corriere della Sera, riconosce l’universalità di Dante per la sua “capacità di trascendere il tempo e di fornire indicazioni, messaggi e insegnamenti validi per sempre”:
“Io credo che l’universalità e, insieme, la bellezza di Dante vadano ricercate proprio nella particolare attitudine di penetrare nel profondo dell’animo umano, descrivendone in modo coinvolgente moti, sentimenti, emozioni. I vizi che Dante descrive […] sono gli stessi dall’inizio della storia dell’uomo: avidità, smania di potere, violenza, cupidigia …”
Il Presidente era già intervenuto sull’argomento il 3 0ttobre 2020 in occasione del concerto per i 700 anni dalla morte di Dante. Dante per il Presidente si configura come uno “ straordinario intellettuale completo sotto ogni profilo che fece dell’impegno civile, morale e religioso la ragione stessa della sua incomparabile produzione artistica”.
Nel discorso viene sottolineata la coerenza dell’uomo Dante.
Il suo sogno esistenziale e orizzonte politico ideale fu l’Italia, di cui assurse a profeta. Maestro di morale, denunciò implacabilmente la corruzione del suo tempo. Volle affidare il suo messaggio al parlare del popolo come lingua “naturale”. La sua opera, pur essendo così immersa nel suo tempo, è scritta per i posteri:
“È vero che figure come quella dantesca devono essere esaminate sotto la luce dell’universalità e non sotto quella, assai più consunta, dell’attualità. Ma, forse, anche oggi si avverte una grande necessità di guardare di più a Dante, al suo esempio, alla sua capacità di visione e alla sua lungimiranza, artistica e civile”.
Papa Francesco in occasione di questo Dantedì ha pubblicato la Lettera apostolica Candor lucis aeternae (espressione tratta dal Libro della Sapienza dell’Antico Testamento e ripresa da Dante nel Convivio, ove si legge che la sapienza è “candore della etterna luce e specchio sanza macula della maestà di Dio”).
Il Papa riconosce in Dante il legame fra “la bellezza della poesia” e “la profondità del mistero di Dio e dell’amore”.
Ricorda i passati interventi di Leone XIII, Pio IX, Benedetto XV, Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI. Fra questi Paolo VI rivendica con particolare energia “l’appartenenza del poeta alla Chiesa cattolica”, esclamando “per un diritto particolare, nostro è Dante!”. Importante notare che non ignora il biasimo di Dante per la Chiesa stessa:
“Né rincresce ricordare che la voce di Dante si alzò sferzante e severa contro più d’un Pontefice Romano, ed ebbe aspre rampogne per istituzioni ecclesiastiche e per persone che della Chiesa furono ministri e rappresentanti […]”
Papa Francesco già nella Lettera Enciclica Lumen fidei riconosceva Dante “profeta di speranza”.
Ora riprende il motivo della “missione profetica” in cui “si inseriscono […] la denuncia e la critica nei confronti di quei credenti, sia Pontefici che fedeli, che tradiscono l’adesione a Cristo e trasformano la Chiesa in uno strumento per i loro interessi […]”. Il messaggio di Dante, lungi dall’essere utopistico, aspira ad inverarsi nella realtà. Questa è la lezione che Papa Francesco a tutti impartisce:
“Dante […] non richiede, oggi, di essere semplicemente letto, commentato, studiato, analizzato. Ci chiede piuttosto di essere ascoltato, di essere in certo qual modo imitato, di farci suoi compagni di viaggio, perché anche oggi egli vuole mostrarci quale sia l’itinerario verso la felicità […]”
Il mondo della scuola deve essere grato al Papa, che nella Candor lucis aeternae esprime apprezzamento per l’opera dei docenti:
“Mi congratulo, pertanto, con gli insegnanti che sono capaci di comunicare con passione il messaggio di Dante, di introdurre al tesoro culturale, religioso e morale contenuto nelle sue opere”.
E soggiunge:
“E tuttavia questo patrimonio chiede di essere reso accessibile al di là delle aule scolastiche e universitarie”.
In definitiva Papa Francesco riconosce che Dante interpreta il “dinamismo del desiderio”, al quale un uso sapiente della propria libertà assicura il giusto orientamento.
Sia nelle parole del Presidente che nelle parole del Papa affiora il riconoscimento dell’appello dantesco all’autentico impegno esistenziale di ogni essere umano: combattere la corruzione in nome della giustizia.
Link per il testo integrale del discorso del Presidente: la_lezione_di_dante_per_l_italia_di_oggi
Link per il testo integrale della Lettera apostolica del Papa Candor lucis aeternae: papa-francesco-lettera-centenario-dante.html
Il messaggio antagonistico della Commedia
Fin troppo spesso le celebrazioni lasciano il tempo che trovano. Non si tratta soltanto di celebrare Dante con cerimonie ufficiali, che rischiano di dare spazio a vanaglorie ed esibizionismi. Occorre recepire l’appello di Dante ad un agire politico conforme a valori etici prima ancora che religiosi. Paolo VI ritenne di poter rivendicare un diritto ecclesiastico di proprietà esclusiva su Dante. Pretesa che ci sia concesso di non condividere. Un Papa non è infallibile, come riconobbe Giovanni Paolo II all’atto del suo insediamento sul soglio pontificio: “Se sbaglio, mi correggerete”. Dante è proprietà di tutti, anche e soprattutto dei non credenti. È di tutti il dovere di leggerlo per trarne impulso a opporsi ad ogni ingiustizia. Con questo spirito ripercorriamo alcuni passi del poema in cui i mali della politica vengono in modo più diretto evidenziati e deprecati.
Sesto canto dell’Inferno.
Nel Cerchio terzo dei golosi Dante incontra il suo concittadino soprannominato Ciacco e gli chiede notizie sull’evolversi della situazione politica in Firenze:
Io li rispuosi: “Ciacco, il tuo affanno
mi pesa sì, ch’a lagrimar mi ’nvita;
ma dimmi, se tu sai, a che verranno
li cittadin de la città partita;
s’alcun v’è giusto; e dimmi la cagione
per che l’ ha tanta discordia assalita”.
E quelli a me: “Dopo lunga tencione
verranno al sangue, e la parte selvaggia
caccerà l’altra con molta offensione.
Poi appresso convien che questa caggia
infra tre soli, e che l’altra sormonti
con la forza di tal che testé piaggia.
Alte terrà lungo tempo le fronti,
tenendo l’altra sotto gravi pesi,
come che di ciò pianga o che n’aonti.
Giusti son due, e non vi sono intesi;
superbia, invidia e avarizia sono
le tre faville c’ hanno i cuori accesi”. (Inferno, VI, 60-75)
Dante personaggio sa che Firenze è lacerata da lotte intestine.
Sospetta e teme che fra i cittadini vi sia una maggioranza di spregiatori della giustizia. Chiede quali siano i motivi della discordia. Ciacco mette in rilievo i mali che sono alla radice di una situazione politica così rovinosa. S’intende che il buon cittadino dovrebbe amare e praticare la giustizia, opponendosi all’immoralità dei più. Possiamo forse affermare che nel mondo di oggi la realtà politica non ci offra spesso uno spettacolo altrettanto indecoroso, per quanto tanti responsabili siano astuti nel dissimularlo?
Nel secondo balzo dell’Antipurgatorio fra gli spiriti negligenti pentitisi in punto di morte il trovatore Sordello, mantovano, riconosce in Virgilio un suo concittadino e i due si abbracciano commossi, scena che prelude alla tremenda invettiva contro l’Italia:
Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello!
Quell’anima gentil fu così presta,
sol per lo dolce suon de la sua terra,
di fare al cittadin suo quivi festa;
e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
di quei ch’un muro e una fossa serra. (Purgatorio, VI, 76-84)
Asperrima è l’apostrofe all’Italia personificata.
Italia schiava, albergo di dolore, priva di guida, in balia dei marosi. Dovrebbe essere signora di province e invece è simile a una prostituta. La rampogna investe gli italiani in discordia fra loro. All’esempio di Sordello, che al solo udire il nome di Mantova si è slanciato ad abbracciare il mantovano Virgilio, si contrappongono le lotte intestine fra concittadini.
Non v’è pace alcuna sul suolo italico. Invano Giustiniano compilò le sue leggi. L’imperatore, che dovrebbe garantire concordia, è latitante. I pontefici ne approfittano per ingerirsi nel potere temporale. Dante invoca il castigo divino sull’imperatore Alberto d’Austria che ha lasciato l’Italia senza freno come una cavalcatura riottosa. Castigo che incuta timore nel suo successore. Alberto d’Austria e suo padre hanno abbandonato a se stessa l’Italia, “giardino dell’impero”. Viene reiterata in modo incalzante l’esortazione mista di sdegno e sarcasmo a voler venire a vedere il disastro politico in cui versano l’Italia e Roma.
L’apostrofe di Dante, a riprova del suo energico antagonismo, investe perfino Dio, anche se in forma interrogativa.
Forse lo sguardo divino, garanzia di giustizia, è distolto da tanto disastro, mentre sarebbe necessario un provvidenziale intervento:
E se licito m’è, o sommo Giove
che fosti in terra per noi crucifisso,
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?
O è preparazion che ne l’abisso
del tuo consiglio fai per alcun bene
in tutto de l’accorger nostro scisso? (Purgatorio, VI, 118-123)
La digressione si conclude con la prosopopea di Firenze, alla quale Dante si rivolge con amara e sferzante ironia.
Non è diretta alla sua città l’invettiva. Ciò perché i fiorentini si adoperano a ben fare. Le loro labbra sono pronte a pronunciare la parola giustizia. Se molti rifiutano il peso delle cariche pubbliche, i fiorentini invece si dichiarano pronti a sostenerlo. Sia lieta dunque Firenze, “ricca” (per dire povera della ricchezza autentica), “con pace” (per dire travagliata dalla guerra civile), e “con senno” (per dire dissennata).
Fiorenza mia, ben puoi esser contenta
di questa digression che non ti tocca,
mercé del popol tuo che si argomenta.
Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca
per non venir sanza consiglio a l’arco;
ma il popol tuo l’ha in sommo de la bocca.
Molti rifiutan lo comune incarco;
ma il popol tuo solicito risponde
sanza chiamare, e grida: “I’ mi sobbarco!”.
Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:
tu ricca, tu con pace e tu con senno!
S’io dico ’l ver, l’effetto nol nasconde. (Purgatorio, VI, 127-138)
Dante, dopo aver soggiunto che ben poco fecero Atene e Sparta per il “viver bene” a differenza di Firenze, abbandona infine il tono ironico, rilevando che la situazione politica in Firenze è caratterizzata da una cronica instabilità, determinata da provvedimenti di effimera durata:
Atene e Lacedemona, che fenno
l’antiche leggi e furon sì civili,
fecero al viver bene un picciol cenno
verso di te, che fai tanto sottili
provedimenti, ch’a mezzo novembre
non giugne quel che tu d’ottobre fili.
Quante volte, del tempo che rimembre,
legge, moneta, officio e costume
hai tu mutato, e rinovate membre! (Purgatorio, VI, 139-147)
La denuncia della corruzione prosegue nel Paradiso.
Qui risaltano, ad esempio, nei canti undicesimo e dodicesimo, ambientati nel cielo quarto o del Sole, dedicati agli spiriti sapienti, l’elogio di San Francesco, amante, benché figlio di un ricco mercante, della povertà, da lei ricambiato, dopo che per secoli e secoli era stato smarrito l’esempio di amore per la povertà offerto da Cristo, e l’elogio di San Domenico, anch’egli amante, oltre che della fede, della povertà, dedito a salvaguardare la Chiesa contro la sedia pontificia se occupata da pontefice indegno.
Dante introduce i canti dell’elogio degli spiriti sapienti evidenziando la follia degli esseri umani dediti ai falsi piaceri:
O insensata cura de’ mortali,
quanto son difettivi sillogismi
quei che ti fanno in basso batter l’ali!
Chi dietro a iura e chi ad aforismi
sen giva, e chi seguendo sacerdozio,
e chi regnar per forza o per sofismi,
e chi rubare e chi civil negozio,
chi nel diletto de la carne involto
s’affaticava e chi si dava a l’ozio,
quando, da tutte queste cose sciolto,
con Bëatrice m’era suso in cielo
cotanto glorïosamente accolto. (Paradiso, XI, 1-12)
Riflettere sull’espressione “difettivi sillogismi”, ovvero ragionamenti manchevoli e imperfetti, consente di far venire alla luce un pregio della dimora mentale di Dante generalmente non messo nel debito rilievo: la razionalità. Dal Credo ut intelligam di Agostino alla Fides quaerens intellectum di Anselmo d’Aosta la fede è congiunta alla sfera cognitiva.
La teologia senza l’apporto della ragione sarebbe inconcepibile.
Riflettere sulle espressioni “regnar per forza o per sofismi” e “rubare” suscita amarezza e sdegno, dal momento che nella realtà contemporanea su scala internazionale non mancano certo esempi di persistenza di quei mali.
Si dirà che il pensiero politico di Dante è superato fin dal suo nascere. In effetti il sogno dantesco dell’impero universale continua a palesarsi storicamente irrealizzabile e destinato a restare tale per sempre. Non per questo siamo autorizzati a disconoscerne e misconoscerne la mirabile carica ideale e a restare inerti nei nostri diversi contesti. L’idea dantesca richiede non rigetto, ma aggiornamenti, uno dei quali può rinvenirsi in Zum ewigen Frieden. Ein philosophischer Entwurf di Immanuel Kant.
Questi molto cursori e sintetici accenni ben consentono di capire che Dante è proteso a stimolare a combattere contro tutto ciò che si opponga, prima ancora che alla religione, all’etica. Come credere che con la Commedia abbia voluto rivolgere all’umanità un appello destinato a restare lettera morta? Limitarsi a celebrare ed esaltare la sua opera sul piano estetico, senza adoperarsi per mettere in pratica il suo messaggio rivoluzionario, significa vilipenderlo.
Dire che Dante è grande e non raccogliere il suo appello all’azione non basta.
Purtroppo i mali denunciati da Dante persistono. Le rivalità sono all’ordine del giorno. L’arrivismo dilaga. I Dantedì rischiano di perpetuare una serie di chiassosi rituali annuali, destinati a sovrastare la vox clamantis in deserto di ogni più avvertita e ragguardevole autorità civile e religiosa.
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