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Scienza e libertà in Dante.

Alla ricerca del progetto di Dio per l’universo. Scienza e libertà in Dante.

Flavio Quarantotto

Una delle immagini che sembra qualificare il medioevo, almeno quello letterario, è il cavaliere solitario, che va alla ricerca dei torti da raddrizzare in nome della verità. Anche la scienza cercava la verità: etimologicamente αλήϑεια è ciò che era nascosto e viene ora portato alla luce – e questo è compito della ricerca.

Che cosa sia la verità il cavaliere non sa. Uomo d’arme e non di pensiero, nel suo cammino si affida agli eventi – la Provvidenza – e li segue. Alla fine per lui non conta tanto raggiungere una meta quanto l’andare: più che il risultato vale il modo di essere e di fare, che è moralità e senso della vita. Anselmo d’Aosta (De veritate) gli insegnava che la verità è rectitudo (rettitudine): vero è l’oggetto che risulta conforme all’idea che dell’oggetto è in Dio, veri il pensiero e l’azione coerenti con il progetto di Dio per l’universo.

L’andare del cavaliere è “Queste”, antico termine francese (dal latino “quaero”), fissata nel titolo di uno tra i più noti romanzi del ciclo di Artù, La queste du Saint Graal, (Alla ricerca del santo Graal).

“Libertà va cercando, ch’è sì cara/come sa chi per lei vita rifiuta.”

Così risponde Virgilio a Catone, quando il custode del Purgatorio blocca i due viandanti all’uscita del cunicolo che dal centro della terra porta alle spiagge del Purgatorio. Anche Dante è “à la queste”, alla ricerca, in maniera modernissima, della libertà. Modernissima perché nasce dal désir d’éternité, (“M’insegnavate come l’uom s’eterna”, dice a Brunetto Latini), che è ansia di infinito.

Comincia ora la sua ricerca? No. Era iniziata almeno venti anni avanti la scrittura di queste terzine, nelle scuole “de li filosofanti”, domenicani e francescani, forse agostiniani, e sui libri di Boezio, Cicerone, Aristotele. Gli insegnano che la libertà è figlia della scienza[1].

La distinzione moderna tra scienza e filosofia è ancora lontana e più lontano ancora è il positivismo di Comte, per il quale il sapere deriva dalle sole scienze (al plurale), con conseguente scadimento della filosofia. Per Dante ed il suo tempo scienza è l’insieme delle scienze che confluiscono, al di là del loro campo e del loro linguaggio, nella filosofia, che rende certa la conoscenza in virtù del procedimento gnoseologico applicato all’oggetto.

Per questo il problema del metodo nella ricerca è centrale: lo sapeva Dante (come lo sapranno trecento trent’anni più tardi prima Galileo, poi Cartesio) e lo sapeva il suo illustre amico, Cavalcanti, l’averroista, pari a lui per “altezza d’ingegno”, e come lui ricercatore.

dantedì by marcello ambrisi

Il giorno di Dante

Ingegno è parola chiave nella commedia.

Giovanni della Rochelle, professore di teologia (filosofia) a Parigi fino al 1245, definiva l’ingegno capacità di “inquirere ignota”, di percorrere, cioè, territori sconosciuti per trarne conoscenza (e la definizione è singolarmente vicina alla queste). A questa accezione fa riferimento Cavalcante de’ Cavalcanti quando, piangendo, chiede a Dante: “Se per questo cieco carcere vai per altezza d’ingegno, mio figlio ov’è? e perché non è teco?” (Inf. X, 58)

Questa tensione ad apprendere, che è sete di sapere, Dante riconosce come suo carattere distintivo:

Li occhi miei, ch’a mirare eran contenti,
per veder novitadi ond’ e’ son vaghi,
volgendosi ver’ lui non furon lenti. (Purg., X,104)

Con Guido, dunque, inquisivit ignota: per entrambi, almeno finché è durata la loro amicizia, alla base del sapere c’è la percezione, su cui si innestano i processi razionali che conducono all’intelligenza. Sembra poco, ma è la condizione prima per la nascita della scienza in senso moderno perché separa il soprannaturale dal naturale, assegnando a quest’ultimo un campo d’indagine proprio, non necessariamente autonomo, ma tale, tuttavia, da consentire lo sviluppo di questioni indipendenti.

Il principio può condurre alla doppia verità, se non alla negazione della verità di fede: per Averroè la verità consiste esclusivamente nelle dimostrazioni razionali, che possono condurre ad esiti aberranti. E questo può essere “a-versione”, l’opposto di “con-versione”.

Sigieri di Brabante aveva affermato esplicitamente che le dimostrazioni razionali possono pervenire, con procedimenti metodologici impeccabili, a conclusioni opposte a quelle affermate dai testi sacri e deduceva la distinzione dell’ambito dell’indagine filosofico-scientifica da quello specifico dell’esegesi della verità rivelata e della teologia.

Dante colloca Sigieri nel Paradiso, mostrando chiaramente di prenderne le parti[2].

Da lui, condannato dall’inquisizione, Dante deriva l’onere di verificare la coerenza della parte (rinvenuta) con il tutto del sistema (preesistente) in cui questa è inclusa, con la consapevolezza che la nuova scoperta può essere in grado di attribuire un significato complessivo o un ordine (logica) diverso al suo sistema di riferimento.

L’intelligenza, d’altra parte, è sostanza divina, che si iscrive nell’uomo quando la sua conformazione è compiuta. La sostanza divina non può essere multiforme: per questo, per la sua unicità, garantisce all’universo la sua natura razionale, all’uomo la capacità di penetrarla, alla conoscenza validità universale.

Tutto questo Dante apprendeva e sviluppava nel periodo tra la composizione della Vita Nova e l’esilio. E’ possibile ricostruirne i passi perché tutte le opere principali di Dante hanno,  esplicita o implicita, una base autobiografica, al punto che nel loro insieme possono essere lette come un’unica autobiografia letteraria.

Che si tratti di un “cammino”, e cioè una conoscenza progressiva, che si estende e si approfondisce, è reso esplicito anche dal sistema poesia/prosa che caratterizza Convivio e Vita Nova: la poesia coglie, soprattutto nelle “visioni”, gli oggetti dell’intuizione (Fantasia); la prosa ricostruisce il tessuto intellettuale che trasforma l’esperienza poetica in conoscenza, in ordinata conquista gnoseologica (Intelletto, Ragione) o, se si vuole, in Dottrina.

Nella Commedia oggetto esplicito della poesia è il vero, nella sua complessità ed interezza.

Il passaggio è segnato nella canzone del IV trattato del Convivio, Le dolci rime d’amor ch’i’ solia / cercar ne’ miei pensieri, / convien ch’io lasci. Questa e, contestualmente, la Commedia, di cui è in parte coeva, si propongono senza schermi come “scienza”, ricerca della verità “che si fa”, si pone, si dirama lungo la linea che dal sensibile porta all’ineffabile. Arte ed ingegno, ovvero poesia e scienza trovano un loro comune e specifico statuto.

La Commedia, a sua volta, invertendo il processo retorico fin qui seguito, traduce in poesia la dottrina (scienza) ed avvia organicamente l’indagine sui fondamenti razionali dell’universo per poggiare su di essi lo slancio verso altre verità, ugualmente razionali, la cui portata trascende le forze umane[3].

L’inizio del 1302 vede Dante bandito da Firenze.

Condannato a morte, senza colpa, o, come lui dice, “per ben fare”. La vicenda coincide con o determina anche una revisione profonda della costruzione del suo sapere, e la ricerca della libertà assume anche un’autenticità esistenziale.

Dante scopre che la ricerca condotta fino ad allora era un andare per una selva senza luce di verità: aveva abbandonata la “verace via”. A Brunetto Latini, che era stato suo maestro, e quindi era tra quelli che quella via gli avevano indicato, rivela il suo smarrimento:

Là sù di sopra, in la vita serena,
rispuos’ io lui, mi smarri’ in una valle,
avanti che l’età mia fosse piena.

Pur ier mattina le volsi le spalle:
questi m’apparve, tornand’ ïo in quella,
e reducemi a ca’ per questo calle. (Inf. XV, 50)

Il “ritorno a casa” esclude la mera revisione del sistema di conoscenza fino ad allora praticato.

Non è difettoso in uno o più punti da restaurare: in sé coerente, è da rifondare, perché l’errore è nelle strutture portanti o nei presupposti.

La lupa, che è l’ultimo aspetto che la stessa belva assume dopo aver vestito le forme della lonza e del leone, corrode l’intelletto: nasconde o esclude dal suo orizzonte lo sfondo metafisico in cui è collocato quanto è da conoscere, così che la sua conoscenza, in quanto parziale o distorta o prospetticamente alterata, è intrinsecamente falsa.

Quella del sapere è una sete naturale: perché la natura opera secondo gli indirizzi divini, questa sete è buona[4]. La lupa interviene all’origine del processo in due modi: moltiplicando gli oggetti del desiderio e mostrandoli tutti come ugualmente buoni[5]. Ed impedisce, così, di inserire gli oggetti di conoscenza in una gerarchia ed in un sistema che dia loro la giusta misura, il giusto valore[6]: in una parola il giusto significato.

Io veggio ben che già mai non si sazia
nostro intelletto, se ‘l ver non lo illustra
di fuor dal qual nessun vero si spazia.

Posasi in esso, come fera in lustra,
tosto che giunto l’ha; e giugner puollo:
se non, ciascun disio sarebbe frustra.

Nasce per quello, a guisa di rampollo,
a piè del vero il dubbio; ed è natura
ch’al sommo pinge noi di collo in collo. (Par., IV,130)

Il dubbio metodico che costituisce il fondamento della filosofia di Cartesio era già stato indicato come presupposto della ricerca da Abelardo (Sic et Non, prologo) e, come dimostrazione dell’essere del dubitante, da Agostino (De Trinitate, X,10,13). Questo dubbio è la base della ri-conversione che Dante inizia per ricostruire il suo sapere, e con esso il senso della sua vita, in una nuova logica che lo ripari dal rischio continuamente incombente della follia[7].

Folle – anche questo è un termine chiave – è l’azione che afferma la sua autonomia nella sua causa e nei suoi fini e per questo si colloca esplicitamente in un logos parimenti autonomo, che presume di sostituirsi o affiancarsi all’unico reale, quello voluto da Dio. Dio è luce: escluso Dio, è esclusa la luce.

Questa velleità, che soddisfa l’illusione di onnipotenza dell’uomo, è inganno[8].

Fa tralucere libertà, invece è ignoranza, cecità: e la cecità è prigione, l’ignoranza è ostacolo.

Il cammino di Dante ha questo scopo: restituirgli la vista, perché misuri se stesso e la distanza tra l’uomo e Dio, perché investigando nel logos dell’universo scopra la ragione del suo essere, per sé e per gli altri:

Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questo è forma
che l’universo a Dio fa simigliante. (Par., I, 103)

 

Riprendendo forse Duns Scoto, Dante elabora la concezione della materia come entità positiva realmente sussistente e distinta dalla forma. Questa allude alle sostanze angeliche, la materia al mondo sensibile:

Forma e materia, congiunte e purette,
usciro ad esser che non avia fallo,
come d’arco tricordo tre saette. (Par. XXIX, 22-24)

Esse sono generate, ciascuna nella loro perfezione (purette), contestualmente distinte e correlate (congiunte), in un medesimo ed infallibile atto creativo (come d’arco tricordo tre saette).

Questo consente di valorizzare l’esperienza (intesa come rapporto tra un soggetto capace di percezione e la cosa o fatto da lui distinti) come fondamento della scienza, alla quale tuttavia si giunge attraverso il laborioso processo razionale che già la Scolastica aveva messo a punto nel recupero di Aristotele.

Secondo la Scolastica nessun soggetto può essere conosciuto se non per mezzo delle sue manifestazioni (esperienza).

Solo da sensato apprende/Ciò che fa poscia d’intelletto degno (Par. IV, 41-42)

Di qui l’istanza per la ricognizione più attenta possibile del fenomeno e per la registrazione dei risultati, anche da porre a confronto con quelli raccolti ed elaborati dagli altri studiosi nelle quaestiones pubbliche. Dante avverte, però, che il percorso, pur rigorosamente scientifico, che ne deriva non garantisce di per sé la verità, specie se pretende di accedere ad orizzonti che trascendono lo stesso intelletto[9].

Se oggetto esplicito della poesia è il vero, ed al vero si giunge partendo dall’esperienza, la materia della poesia dovrà proporsi come situazione da sperimentare. L’esperienza implica l’interazione del lettore con il testo e questo a sua volta non potrà più consistere nella fabula, ma, piuttosto, nella rappresentazione della realtà. Ma se la poesia ha come fine ultimo il bene, l’itinerario in cui è collocata la serie delle situazioni esperienziali seguirà una logica “pedagogica”, che parta dal noto per accedere, se e in quanto possibile, all’ignoto. E questa, come si vede è l’immagine della Commedia.

L’oggetto di esperienza può essere proposto limitandosi alla sua descrizione (quid) oppure adottando il metodo matematico (propter quid), che dimostra il fenomeno esaminandone le cause o la loro concatenazione. La descrizione del quid è sempre necessaria, ma si ha scienza quando se ne dimostri la causa, che si parta o si pervenga al quid.

Parlando della Via Lattea[10], Dante si ferma alla sua descrizione: è costituita da stelle di diversa luminosità, è collocata tra i poli del mondo, sulla sua natura molti saggi hanno commesso errori:

Come distinta da minori e maggi
lumi biancheggia tra’ poli del mondo
Galassia sí, che fa dubbiar ben saggi» (Par. XIV, 97-99).

Nel Convivio (II, XIV, 5-8) indica, però, come sia giunto ad affermare che si tratta di ammassi di stelle (e vi aggiunge un’interessante notazione sugli errori dei traduttori di Aristotele).

“Chè li Pittagorici dissero che ‘l Sole alcuna fiata errò ne la sua via e, passando per altre parti non convenienti al suo fervore, arse lo luogo per lo quale passò, e rimasevi quella apparenza de l’arsura: e credo che si mossero da la favola di Fetonte, la quale narra Ovidio nel principio del secondo di Metamorfoseos. Altri dissero, sì come fu Anassagora e Democrito, che ciò era lume di sole ripercusso in quella parte, e queste oppinioni con ragioni dimostrative riprovaro. Quello che Aristotile si dicesse non si può bene sapere di ciò, però che la sua sentenza non si truova cotale ne l’una translazione come ne l’altra. E credo che fosse lo errore de li translatori; chè ne la Nuova pare dicere che ciò sia uno ragunamento di vapori sotto le stelle di quella parte, che sempre traggono quelli: e questo non pare avere ragione vera. Ne la Vecchia dice che la Galassia non è altro che moltitudine di stelle fisse in quella parte, tanto picciole che distinguere di qua giù non le potemo, ma di loro apparisce quello albore, lo quale noi chiamiamo Galassia: e puote essere, chè lo cielo in quella parte è più spesso e però ritiene e ripresenta quello lume.”

Anche la descrizione della meteora del canto V del Par. (13-19), come del resto la notevole serie delle similitudini della Commedia, rientra nel metodo del quid, caratterizzato dalla precisione “scientifica”:

Quale per li seren tranquilli e puri
discorre ad ora ad or súbito foco
movendo li occhi che stavan sicuri,
e pare stella che tramuti loco,
se non che da la parte ond’el s’accende
nulla sen perde, ed esso dura poco …

In Purgatorio (XV 16-23) Dante e Virgilio camminano con il sole che illumina i loro volti.

Ad un tratto una luce abbagliante costringe Dante a schermare gli occhi con le mani ed a voltare il capo: è la luce dell’angelo che va a condurli al girone superiore.

Come quando da l’acqua o da lo specchio
salta lo raggio a l’opposita parte,
salendo su per lo modo parecchio
a quel che scende, e tanto si diparte
dal cader de la pietra in igual tratta,
sì come mostra esperïenza e arte;
così mi parve da luce rifratta
quivi dinanzi a me esser percosso;
per che a fuggir la mia vista fu ratta.

Qui è descritta con precisione la seconda legge della riflessione (di Snell), per la quale gli angoli che il raggio incidente e quello di riflessione formano con la normale sono tra loro congruenti.

La descrizione, ricavata da esperïenza e arte, ha un fine proprio: poiché l’angelo ed il sole gli stanno di fronte, per poter parlare di raggio riflesso (luce rifratta) che risale “parecchio” cioè con un angolo pari a quello incidente, si deve pensare che quel raggio provenga da un’altra sorgente (Dio), e che, colpendo l’angelo, da questo riflesso, giunge a Dante. Ma Dante non lo dice: fornisce, però, ai lettori gli strumenti per intendere, naturalmente se non si son messi in piccioletta barca.

La richiesta di collaborazione del lettore per la ricostruzione del significato (vero) è esplicitata da Dante in diversi casi[11] e come condizione dell’esperienza di lettura.

Il paragone non è fine a sé stesso e non è giustificato soltanto da ragioni poetiche: serve ad aggiungere un dato di conoscenza che non è rilevabile dai termini fino ad allora raccolti.

L’ottica è al servizio della poesia: è strumento retorico.

Allo stesso modo il richiamo alla geometria è funzionale ad illustrare una situazione altrimenti di difficile comprensione:

O cara piota mia che sì t’insusi,
che, come veggion le terrene menti
non capere in trïangol due ottusi,
così vedi le cose contingenti
anzi che sieno in sé, mirando il punto
a cui tutti li tempi son presenti.

Si tratta del quinto postulato degli Elementi di Euclide.

La somma degli angoli interni di un triangolo è pari a un angolo piatto (π). Cacciaguida e gli altri beati possono prevedere gli eventi futuri con la stessa immediatezza e chiarezza con cui si comprende che in un triangolo non possono sussistere due angoli ottusi.

Nel XIII del Paradiso anche S. Tommaso cita una “regola” geometrica, e sempre relativa al triangolo, questa volta per definire la sapienza di Salomone.

Questo aveva chiesto a Dio la sapienza del governo, necessaria a svolgere correttamente la sua funzione di re (“chiese senno acciò che re sufficiente fosse”, 95-96), non la scienza che altri uomini si sforzano di perseguire.

E qui Dante sintetizza le branche del sapere.

Salomone non chiese la scienza che indaga sul numero degli angeli (“non per sapere il numero in che enno /li motor di qua sù”, 97-98), ciò che cercava, senza trovare, l’astronomia; né quella che ricerca se da una premessa necessaria e una contingente possa derivare una conseguenza necessaria (“o se necesse con contingente mai necesse fenno, 99”), oggetto della dialettica, che segue la regola generale che se nel sillogismo c’è una premessa falsa, particolare o contingente, necessariamente falsa, particolare o contingente è la conseguenza (conclusio sequitur semper debibliorem partem).

Non chiese la scienza della metafisica, che dibatte tuttora se conviene ammettere un moto “primo”, non causato da altro (“non si est dare primum motum esse”, 100), nonostante l’affermazione aristotelica che repugnat in causis processus in infinitum; né chiese quella dei “geomètri”, per tentare la costruzione di un triangolo non retto inscritto in una semicirconferenza (“o se del mezzo cerchio far si puote triangol sì ch’un retto non avesse”,101-102).

Astronomia, dialettica, metafisica, geometria sono le discipline prese in esame e già configurate come saperi caratterizzate da un proprio campo applicativo ed appaiono a Dante, nella prospettiva di questi versi, connotate negativamente.

Quanto al numero delle intelligenze angeliche Dante stesso fornisce la risposta e con essa le condizioni per accedere alla verità.

In Par. XXVIII Beatrice spiega a Dante la struttura dei cieli, risolvendo alcuni suoi dubbi.

Ad ogni nuova conoscenza la mente acquista maggiore capacità di intendere e quindi di vedere (adaequatio rei et intellectus): ciò che a Dante era apparso tanto luminoso da impedire la visione diventa più chiaro e comprensibile ed egli vede i cieli come cerchi infuocati con una scia di innumerevoli scintille (intelligenze angeliche):

L’incendio suo seguiva ogni scintilla;
ed eran tante, che ‘l numero loro
più che ‘l doppiar delli scacchi s’immilla (Par., XXVIII, 91)

Dante deve trasmettere al lettore l’idea della grandezza enorme del numero degli angeli.

Fa ricorso alla leggenda dell’inventore degli scacchi che chiese come ricompensa al sovrano, a cui ne aveva fatto dono, un chicco di riso per la prima casella, e, per ogni casella il doppio dei chicchi di quella precedente. Si tratta di una progressione geometrica, in questo caso con ragione (il rapporto costante tra ogni termine e quello precedente) pari a 2, che produce alla fine un numero assai grande. Dante introduce una ragione,  superiore a mille, che produce un numero inimmaginabile.

Ciò che Dante vuole è che attraverso la poesia, e con uno sforzo da parte del lettore – che è elemento qualificante dell’esperienza – si giunga alla cognizione di una grandezza non infinita, ma innumerabile.

Ancora una volta la scienza è al servizio della poesia. Ed i casi sono assai frequenti.

Dante era à la queste. La Commedia è un itinerario di costruzione dell’uomo nuovo attraverso la scienza, che mira a restituirgli la libertà[12]: libertà della volontà che può esercitarsi solo poggiando sulla conoscenza a sua volta innervata dal vero.

Lo maggior don che Dio per sua larghezza
fesse creando, e a la sua bontate
più conformato, e quel ch’e’ più apprezza,
fu de la volontà la libertate;
di che le creature intelligenti,
e tutte e sole, fuoro e son dotate. (Par., V,22)

Partendo dall’esperienza (Beatrice nella Vita Nova), insistendo sulla riflessione (Beatrice-filosofia nel Convivio), approdando alla trasposizione del contingente nell’assoluto (Beatrice nel Paradiso) si scopre che la verità deriva dall’intelligenza del Logos, operazione sollecitata dall’amore.

e [Virgilio] disse: «Il temporal foco e l’etterno
veduto hai, figlio; e se’ venuto in parte
dov’ io per me più oltre non discerno.
Tratto t’ho qui con ingegno e con arte;
lo tuo piacere omai prendi per duce;
fuor se’ de l’erte vie, fuor se’ de l’arte.

……

libero, dritto e sano è tuo arbitrio,
e fallo fora non fare a suo senno:
per ch’io te sovra te corono e mitrio». (Purg., XXVII,127)

Ma libero arbitrio non è ancora libertà: ne è la condizione necessaria ed imprescindibile.

Occorre un altro duplice passo: il riconoscimento esplicito dell’errore e della falsità del sistema di conoscenza in precedenza interamente accettato da Dante. Non è tanto penitenza: è affermazione di una volontà rinnovata di continuare la ricerca, accettando il ruolo assegnatogli – ed è ruolo altissimo – all’interno del nuovo sistema, quello che, discendendo da Dio, è intrinsecamente buono ed opera per il bene di tutti.

La libertà è modo di essere: perfetto equilibrio di ragione e volontà nella scelta del bene riconosciuto nell’esercizio dell’intelletto. È a questo punto che colui che cercava libertà, la trova, perché ha trovato la verità. La ricerca, orientatasi finalmente a Dio, coglie il logos che organizza e vivifica l’universo e la storia.

La queste è una violenza, a cui Dio volentieri si sottomettere perché, lui vinto[13], vinca con la sovrabbondanza del suo amore la creatura che ha ritrovato il suo posto nell’ordine provvidenziale.

O donna in cui la mia speranza vige,
e che soffristi per la mia salute
in inferno lasciar le tue vestige,
di tante cose quant’ i’ ho vedute,
dal tuo podere e da la tua bontate
riconosco la grazia e la virtute.
Tu m’hai di servo tratto a libertate (Par. XXXI, 79)

Note

[1]        Chi veder vuol la salute, faccia che li occhi d’esta donna miri:

Li occhi di questa donna [Filosofia] sono le sue demonstrazioni le quali, dritte ne li occhi de lo ’ntelletto, innamorano l’anima, liberata da le con[tra]dizioni… e salva da la morte de la ignoranza e da li vizii. (Conv., II, XV,5 – commento alla canzone Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete)

Chiamo la veritade che sia meco, la quale è quello signore che ne li occhi, cioè ne le dimostrazioni de la filosofia dimora, e bene è signore, ché a lei disposata l’anima è donna (= signora, padrona), e altrimenti è serva fuori d’ogni libertade. (Conv., IV, II,18 – commento alla canzone Le dolci rime d’amor ch’i’ solia)

[2]        Questi onde a me ritorna il tuo riguardo,

è ‘l lume d’uno spirto che ‘n pensieri

gravi a morir li parve venir tardo:

essa è la luce etterna di Sigieri,

che, leggendo nel Vico de li Strami,

silogizzò invidïosi veri. (Par., X,136)

[3]        Trasumanar significar per verba

non si porìa; però l’essemplo basti

a cui esperienza grazia serba (Par., I,70)

[4]        Ciascun confusamente un bene apprende

nel qual si queti l’animo, e disira;

per che di giugner lui ciascun contende. (Purg. XVII,128)

[5]        Or ti puote apparer quant’ è nascosa

la veritate a la gente ch’avvera

ciascun amore in sé laudabil cosa;

però che forse appar la sua matera

sempre esser buona, ma non ciascun segno

è buono, ancor che buona sia la cera. (Purg., XVIII,35)

[6]        Piangendo dissi: «Le presenti cose

col falso lor piacer volser miei passi,

tosto che ‘l vostro viso si nascose». (Purg., XXXI, 34)

Quando di carne a spirto era salita,

e bellezza e virtù cresciuta m’era,

fu’ io a lui men cara e men gradita;

e volse i passi suoi per via non vera,

imagini di ben seguendo false,

che nulla promession rendono intera. (Purg. XXXI,127)

[7]        Questi non vide mai l’ultima sera;

ma per la sua follia le fu sì presso,

che molto poco tempo a volger era. (Purg. I,58-60)

[8]        Io son, cantava, io son dolce serena,

che ‘ marinari in mezzo mar dismago;

tanto son di piacere a sentir piena!

Io volsi Ulisse del suo cammin vago

al canto mio; e qual meco s’ausa,

rado sen parte; sì tutto l’appago!». (Purg., XIX,19)

[9]        Matto è chi spera che nostra ragione

possa trascorrer la infinita via

che tiene una sustanza in tre persone.

State contenti, umana gente, al quia;

ché, se potuto aveste veder tutto,

mestier non era parturir Maria;

e disïar vedeste sanza frutto

tai che sarebbe lor disio quetato,

ch’etternalmente è dato lor per lutto:

io dico d’Aristotile e di Plato

e di molt’ altri»; e qui chinò la fronte,

più non disse, e rimase turbato. (Purg. III,35)

Chi parla è quel Virgilio che onora scienzia et arte.

[10]     Proprio la Scolastica, sia quella francescana (Ruggiero Bacone, Bonaventura da Bagnoregio), poi anche quella domenicana (Alberto Magno e Tommaso D’Aquino) recupera, nel XIII secolo, gli studi sull’ottica e più in generale sulla visione, in una disciplina chiamata Perspectiva. Non è una scelta casuale: l’unico oggetto di studio che può consentire una scienza che dimostri l’origine dei fenomeni naturali è la luce perché è il “quid” comune a tutte le cose della natura (Grosseteste) ed allo stesso loro Creatore.

[11]     (Inf., IX ,61) O voi ch’avete li ‘ntelletti sani,

mirate la dottrina che s’asconde

sotto ‘l velame de li versi strani.

(Par., X,23) Or ti riman, lettor, sovra ‘l tuo banco,

dietro pensando a ciò che si preliba,

s’esser vuoi lieto assai prima che stanco.

Messo t’ho innanzi: omai per te ti ciba;

ché a sé torce tutta la mia cura

quella materia ond’ io son fatto scriba.

(Purg., VIII,20) Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero,

ché ‘l velo è ora ben tanto sottile,

certo che ‘l trapassar dentro è leggero.

(Purg., IX,71) Lettor, tu vedi ben com’ io innalzo

la mia matera, e però con più arte

non ti maravigliar s’io la rincalzo.

(Par., X,8) Leva dunque, lettore, a l’alte rote

meco la vista, dritto a quella parte

dove l’un moto e l’altro si percuote

[12]       Tanto giù cadde, che tutti argomenti

a la salute sua eran già corti,

fuor che mostrarli le perdute genti. (Purg., XXX,136)

[13]       Regnum celorum vïolenza pate

da caldo amore e da viva speranza,

che vince la divina volontate:

non a guisa che l’omo a l’om sobranza,

ma vince lei perché vuole esser vinta,

e, vinta, vince con sua beninanza.

 

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