Le cattive, intollerabili, relazioni con i matematici furono tra i motivi delle dimissioni di Oppenheimer dalla direzione dello IAS.
Il personaggio del momento è decisamente lui: Julius Robert Oppenheimer.
Il film che Cristopher Nolan gli ha dedicato sta riscuotendo un successo eccezionale in tutto il mondo, con milioni di incasso e con milioni di persone che, uscite dal cinema, ne parlano. E non solo di lui. Giovani e meno giovani hanno appreso, forse per la prima volta, con il suo nome anche qualcosa della sua vita, della sua storia umana e professionale, di ciò che ha fatto e del processo che ha subìto, e ragionano sul progresso scientifico, sulla politica e sull’energia nucleare, su quella guerra mondiale e sulla bomba atomica, sull’uso che ne è stato fatto e sulle possibili conseguenze di ogni altra guerra. Un tema che oggi li spaventa tutti.
Il film rimette in gioco la figura di Oppenheimer che guida due storie della scienza e dell’umanità, apparentemente di pesi molto diversi, ma entrambe molto importanti.
La prima storia è quella della direzione del progetto Manhattan prolungatasi poi in quella di consigliere per la sicurezza degli Stati Uniti d’America e nelle vicende della bomba H e del maccartismo. La seconda è legata alla guida dell’Institute for Advanced Study (IAS) del quale Oppenheimer fu l’artefice del grande prestigio di cui tuttora gode. Rispetto a questo secondo ruolo il libro, da cui il film è tratto, contiene pagine molto interessanti per la storia della matematica e dei matematici e quindi di particolare interesse per i lettori di Matmedia.

Fuld Hall – IAS Princeton
Oppenheimer giunse a Princeton come direttore dell’Istituto, nel luglio del 1947.
Il suo contratto prevedeva uno stipendio di ventimila dollari l’anno e l’uso esclusivo di una casa stupenda, nota come Olden Manor, risalente al ‘600, ristrutturata più volte e circondata da cento ettari di prati verdi e boschi rigogliosi, con manutenzione e cura a spese dell’Istituto. A non più di quattrocento metri dalla casa c’era la Fuld Hall, un fabbricato di mattoni rossi dove, in quell’anno 1947, Albert Einstein aveva il suo studio in una stanza d’angolo al secondo piano, mentre Niels Bohr e Paul Dirac lavoravano in due stanze contigue al terzo piano. Al piano seminterrato c’erano i locali occupati dalla macchina di calcolo che John von Neumann stava costruendo dal 1946 e che presenterà al pubblico nel 1952. L’ufficio di Oppenheimer era al piano terra.
L’Istituto era stato fondato nel 1930 per essere «Paradiso degli Studi» e già nel 1933 vi erano giunti Einstein con uno stipendio di quindicimila dollari l’anno e, insieme a lui o dopo poco, un buon numero di matematici tra i quali von Neumann, Kurt Gödel, Hermann Weyl, Oswald Veblen. I matematici dell’Istituto non avevano obblighi d’insegnamento, ma tenevano ugualmente stretti legami con Fine Hall, il dipartimento di matematica dell’Università.
L’ambizione di Oppenheimer fu fin da subito quella di trasformare l’Istituto nel più accreditato centro internazionale di cultura interdisciplinare.
Un istituto dove «non ci sarebbero stati obblighi ma solo opportunità», non si sarebbero tenuti corsi e non ci sarebbero stati studenti, ma solo studiosi. Un «albergo» esclusivo per grandi intellettuali, una casa sia della scienza sia della cultura umanistica. «Questo è un posto fantastico», scrisse Abraham Pais nel suo diario nel febbraio 1948. E spiegò: «Bohr viene nel mio studio per parlare, guardo fuori dalla finestra e vedo Einstein che passeggia con uno dei suoi assistenti. Due stanze più in là c’è Dirac. Al piano di sotto c’è Oppenheimer…». «La caratteristica di questo posto – disse una volta Oppenheimer – è che non si richiedono scuse per non aver fatto nulla».
Oppenheimer rimase a Princeton fino alla morte.
Quarant’anni di intenso fumo di tabacco avevano fatto sentire il loro peso sulla sua salute. Morì per cancro alla gola, il 18 febbraio 1967, ma non nella sua camera da letto alla Olden Manor. Morì in una nuova casa dove aveva dovuto traslocare con la famiglia – la moglie Kitty e i due figli Peter e Katherine – all’inizio dell’autunno 1966. Dall’estate, infatti, non era più il direttore dell’Istituto. Si era dimesso e l’Istituto nell’occasione della cerimonia delle lauree di quell’anno accademico lo aveva salutato con un diploma ad honorem: «fisico e velista, filosofo e cavaliere, linguista e cuoco, amante di vini raffinati e della migliore poesia».
Avrebbe potuto rimanere ancora; ad un certo punto però decise che si doveva dimettere.
Al consiglio di amministrazione spiegò che gli mancavano solo due anni al compimento dei sessantacinque anni, età che avrebbe reso obbligatorio l’abbandono, e sentiva inutile restare lì «ad aspettare che suonasse la campana». Un altro motivo era la moglie Kitty che, affetta da dipsomania, aveva bisogno della sua vicinanza. Il terzo motivo erano le sue relazioni con i membri della scuola di matematica che erano divenuti «intollerabili e sempre peggiori».
Sempre peggiori perché erano stati così, problematici, fin dal suo arrivo a Princeton e anche prima.
John von Neumann e Hermann Weyl si erano infatti espressi contro la sua chiamata come direttore e analogamente aveva fatto Veblen che grazie alla sua vicinanza al Consiglio di amministrazione gli aveva creato più degli altri continue difficoltà. Lo scontro forte c’era sempre stato sulle chiamate, dove i matematici, già in maggioranza, pretendevano sempre di più, malgrado Oppenheimer già nel suo primo anno di direzione avesse acconsentito ad un aumento del sessanta per cento del numero di membri che arrivavano per la Scuola di matematica. Questo non gli evitò l’opposizione reiterata dei matematici per moltissime delle proposte di chiamate in settori non matematici. Freeman Dyson scrisse che Oppenheimer con i matematici aveva relazioni semplicemente «disastrose» e che una volta era stato costretto a definire Deane Montgomery, matematico trentottenne, «il più arrogante e testardo figlio di puttana che abbia mai incontrato».
Dal versante opposto, André Weil, che passò decenni all’Istituto, affermò che Oppenheimer cercava di «umiliare i matematici» e che «era una personalità completamente frustrata, e il suo divertimento preferito era quello di far litigare le persone tra loro. L’ho visto fare. Amava avere gente dell’Istituto che litigava. Era frustrato soprattutto perché voleva essere Niels Bohr o Albert Einstein, e sapeva che non era possibile».
Commentano Bird e Sherwin, gli autori del libro:
«Weil era uno dei tipici personaggi pieni di sé che Oppenheimer aveva incontrato all’Istituto. Non erano come quei giovani uomini che con facilità aveva capeggiato a Los Alamos grazie alla forza della sua personalità. Weil era arrogante, sferzante ed esigente. Provava un piacere quasi infantile nell’intimidire gli altri, ed era furioso perché non riusciva a intimidire Oppenheimer».
Oppenheimer, fragile, frustrato, pretenzioso, gentile, arrogante, capace di reazioni umilianti come di slanci generosi, aveva dovuto fronteggiare gruppi di individui non meno arroganti e pretenziosi, spesso con comportamenti insoliti e strani. Ma, al di là di motivi d’ordine caratteriale, alla base dell’attrito così generalizzato c’erano ragioni oggettive che gli autori del libro descrivono in modo molto realistico:
«Per la natura stessa della loro disciplina, invariabilmente i matematici danno il meglio del loro lavoro di intuizione attorno ai vent’anni o agli inizi dei trenta, mentre gli storici o altri scienziati sociali hanno spesso bisogno di molti anni di studi preparatori prima di diventare capaci di genuino lavoro creativo. Così l’Istituto poteva facilmente identificare e reclutare brillanti e giovani matematici, ma difficilmente invitava uno storico che non fosse ben stagionato. E mentre i giovani matematici potevano leggere e farsi un’opinione sul lavoro di uno storico, nessuno storico poteva fare altrettanto per quel che riguardava un possibile candidato alla Scuola di matematica.
E proprio qui stavano i più fastidiosi paradossi. Poiché i matematici arrivavano alla natura delle cose molto prima degli altri, e poiché non avevano compiti di insegnamento, sulla mezza età molti di loro si dedicavano ad altre cose. Se non vengono distratti, inevitabilmente i matematici trasformano ogni riunione in una controversia.
Al contrario, i non matematici, essendo più anziani e di fronte ai primi anni produttivi delle loro carriere, hanno scarso interesse o poco tempo disponibile per intrighi accademici di questo tipo. Ma, sfortunatamente per i matematici, la presenza di Oppenheimer li costrinse a confrontarsi con un direttore che, per quanto fosse un fisico, era determinato a bilanciare la cultura scientifica dell’Istituto con le scienze umane e le scienze sociali. Con loro disdoro, reclutò psicologi, critici letterari e anche poeti».
Oppenheimer portò allo IAS molti noti e valenti studiosi:
il filosofo Harold F. Cherniss, Francis Fergusson, esperto di teatro, l’archeologo Homer Thompson, il poeta T.S. Eliot, lo storico Arnold Toynbee, il sociologo Isaiah Berlin, il diplomatico e storico George F. Kennan. Diede vita allo IAS a una vera e propria scuola di psicologia con Ruth Tolman, Ernest Hilgard, Jerome Bruner. Sono solo alcune delle chiamate ottenute a fatica resistendo alle critiche dei matematici, che contro di lui furono sempre molto uniti con l’eccezione forse dei più strani.
Certamente di Gödel, che viveva in modo molto isolato i suoi tormenti psichici, e di John Nash, che allo IAS giunse nel 1957 e che, diversamente dagli altri, stabilì con Oppenheimer un buon rapporto. Scrisse anche un’apologia su di lui e Oppenheimer nel 1961 lo richiamò in servizio dopo la malattia mentale e il ricovero in ospedale. Al medico di Nash che lo chiamò per chiedergli se Nash stesse bene, Oppenheimer rispose: «Ma dottore, questa è una domanda a cui nessuno sulla faccia della Terra può rispondere».
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