Chi è per noi Ulisse? Ulisse è molto di più dell’eroe astuto: è archetipo ed emblema della condizione umana, è l’eterno Ulisse.

Ulisse
I – Ulisse prima di Dante
Ulisse, leggendario eroe dell’avventura e dell’astuzia, non godeva delle simpatie di Leopardi. Per il Leopardi dello Zibaldone l’ Ὀδυσσεύς omerico, destinato ad essere diversamente ripreso nell’Ulixes latino, è un personaggio “quasi odioso”, che non pare “né giovane né bello”, ideato da un Omero ormai vecchio che vede questo suo eroe come un “perfetto politico”, nel quale i lettori accorti riscontrano un “eccesso di sapienza e senno”. L’Ulisse dell’Odissea, come l’Enea di Virgilio e il Goffredo del Tasso e a differenza di Achille ed Ettore dell’Iliade, manca di amabilità:
“Or dunque volgendoci a’ poemi epici veggiamo nell’Odissea che Ulisse, molto stimabile, in molte parti ammirabile e straordinario, in nessuna amabile, benché sventurato per quasi tutto il poema, niente interessa.”
Il giudizio leopardiano, simile a una ingenerosa stroncatura, spinge a chiedersi se il personaggio di Ulisse fosse stato concepito per essere amabile. Italo Calvino ci ricorda in proposito un’osservazione del filologo classico Alfred Heubeck nel suo Commentario all’Odissea: Ulisse, oltre ad essere un “eroe epico” come “paradigma di virtù aristocratiche e militari”, è anche “l’uomo che sopporta le esperienze più dure, le fatiche e il dolore e la solitudine”. Il suo è “un mitico mondo di sogno, ma questo mondo di sogno diviene contemporaneamente l’immagine speculare del mondo reale dove viviamo, nel quale dominano bisogno ed angoscia, terrore e dolore, e nel quale l’uomo è immerso senza scampo”. Un Ulisse, dunque, “bello di fama e di sventura”, come lo immaginerà Foscolo.

Odisseo e Euriclea
Ulisse da Calvino viene visto diversamente come esempio di insicurezza esistenziale, sospeso fra coscienza e oblio, insidiato dal pericolo di smarrire la propria identità: ritornato a Itaca nelle sembianze di un vecchio mendicante, non riconosce la sua isola, né viene riconosciuto all’istante se non dal cane Argo, più sagace dell’anziana nutrice Euriclea che per l’agnizione avrà bisogno del segno della cicatrice, e solo l’intervento di Atena gli consente di riconoscere se stesso. Se per lunghi tratti non è amabile, finisce col diventare l’uomo che commuove. Insomma è multiforme non solo per la poliedricità del suo ingegno, ma anche e soprattutto per le molteplici fisonomie che assume, sia nelle Odissee (quelle della tradizione orale degli aedi confluite nell’Odissea attribuita a Omero), sia nelle interpretazioni degli autori Latini.
Nell’Eneide virgiliana Ulisse è un personaggio negativo in quanto “scelerum inventor”. Al contrario, per l’Orazio delle Epistole è un eroe avventuroso:
“(Omero) quid virtus et sapientia possit
utile proposuit nobis exemplar Ulixen
qui domitor Troiae multorum providus urbes
et mores hominum inspexit latumque per aequor
dum sibi, dum sociis reditum parat, aspera multa
pertulit, adversis rerum immersabilis undis”
Cicerone nel De finibus lo presenta come rappresentante emblematico del desiderio di conoscenza insito nell’animo umano:
“Tantus est igitur innatus in nobis cognitionis amor et scientiae, ut nemo dubitare possit quin ad eas res hominum natura nullo emolumento invitata rapiatur. Videmusne ut pueri ne verberibus quidem a contemplandis rebus perquirendisque deterreantur? […] [Ut] mihi quidem Homerus huius modi quiddam vidisse videatur in iis, quae de Sirenum cantibus finxerit. neque enim vocum suavitate videntur aut novitate quadam et varietate cantandi revocare eos solitae, qui praetervehebantur, sed quia multa se scire profitebantur, ut homines ad earum saxa discendi cupiditate adhaerescerent […] Ut mihi quidem Homerus huius modi quiddam vidisse videatur in iis, quae de Sirenum cantibus finxerit. neque enim vocum suavitate videntur aut novitate quadam et varietate cantandi revocare eos solitae, qui praetervehebantur, sed quia multa se scire profitebantur […] Vidit Homerus probari fabulam non posse, si cantiunculis tantus irretitus vir teneretur; scientiam pollicentur, quam non erat mirum sapientiae cupido patria esse cariorem.”
Invece per il Seneca del De constantia sapientis Ulisse è inferiore a Catone come “exemplar sapientis viri”.
L’antichità classica fu caratterizzata da simili polemiche, nelle quali la figura di Ulisse oscillava fra mito e realtà. In effetti ancor oggi siamo così suggestionati dal racconto omerico da essere portati a credere che Ulisse sia realmente esistito.

Il viaggio
II – Ulisse in Dante
Dante per il De Sanctis trasfonde in Ulisse parte del suo animo:
“Pure un po’ dell’audacia di Ulisse è ancora in Dante, che gli mette in bocca nobili parole, e ti fa sentire quell’ardente curiosità del sapere che invadeva i contemporanei […] Il peccato diviene virtù […] La poesia alza una statua a questo precursore di Colombo, che indica col braccio nuovi mari e nuovi mondi […]”
Nello stesso tempo il critico contraddice questa visione eroica, contrapponendo ad essa la malizia di Ulisse in un mondo comico:
“Il comico penetra da tutt’i lati, traendosi appresso il lordo, l’osceno, il disgustoso: lo spirito, divenuto malizia, è qui decaduto, degradato; e con lui si oscura la nobile faccia umana. Ulisse stesso per la sua malizia ha la sua figura coperta e fasciata dalle fiamme.”
Dal De Sanctis in poi i critici hanno continuato a dividersi in correnti contrapposte e alcuni sono pervenuti anche a cambiare giudizio, come Manfredi Porena:
“L’uomo (Dante) ammira con tutto il suo cuore una prova così eroica del più alto amore alla scienza, il filosofo e il teologo condannano con la pura ragione colui che ha osato irrompere in quella parte del pianeta ove fu volontà di Dio che l’uomo non abitasse. Anch’io ho pensato un tempo così. Ma riflettendo meglio, mi domando se davvero Dante filosofo e teologo condanni Ulisse […] Concludendo, io credo che in Dante l’uomo e il filosofo si accordassero in una piena ammirazione per Ulisse […] Dopo tutto, quale morte più bella di quella che dopo la riuscita d’un’impresa eroica […] chiude, senza decadenza e senza lenti dolori, in pochi minuti, una vita sana e giovanilmente attiva fino all’ultimo momento, tra le due immensità dell’Oceano e del Cielo?”
Dopo aver fatto parte di quanti hanno visto in Dante nei confronti di Ulisse uno sdoppiamento fra ammirazione e condanna, il Porena si è risolto a far prevalere sulla condanna l’ammirazione: questa palinodia del critico dimostra quanto complessa sia la figura di Ulisse in Dante per la sensibilità contemporanea.
Ulisse articola la propria orazione nelle seguenti sequenze narrative:
- Suo allontanamento dagli affetti familiari, che non vincono “l’ardore” da cui fu spinto a “divenir del mondo esperto …”
- Navigazione “per l’alto mare aperto” con pochi compagni “vecchi e tardi” come lui
- Arrivo allo stretto di Gibilterra, ove sorgono le cosiddette colonne d’Ercole come segno di divieto a spingersi oltre verso l’oceano
- Sua “orazion picciola” ai compagni, chiamati fratelli, con l’esortazione a voler impiegare il breve tempo di vita restante per ciò che erano stati creati, ossia non per “viver come bruti”, ma “per seguir virtute e conoscenza”, ovvero per conoscere il mondo allora ritenuto disabitato
- Entusiasmo dei compagni ai quali nemmeno lui ormai avrebbe potuto impedire di remare verso l’ignoto come in un “folle volo” durato mesi e mesi
- Arrivo a un punto donde si rende visibile in lontananza una montagna straordinariamente alta (quella del Purgatorio)
- Turbine che genera un vortice travolta dal quale la nave fa naufragio inabissandosi con l’equipaggio “com’altrui piacque” (altrui è quel Dio allora sconosciuto a Ulisse)
Ben a ragione Jorge Luis Borges attribuisce al racconto di Ulisse un carattere “enigmatico”. Nello stesso tempo cerca di dare un contributo alla soluzione dell’enigma. Fra gli autori da lui citati risaltano Hugo Friedrich, per il quale la “catastrofe” del naufragio è “la parola di Dio”, e Carlo Steiner, il quale osserva che Dante, “novello Ulisse”, giunge al lido del Purgatorio ove “lo ha condotto non un folle ardimento, ma la ragione illuminata e sorretta dalla grazia”, quindi al “pellegrinaggio sacro” di Dante nell’aldilà si contrappone la “sacrilega avventura” di Ulisse. Eppure il Borges va oltre. Osserva che l’azione di Ulisse è il suo viaggio, mentre l’azione di Dante non è il suo viaggio, ma è “l’esecuzione del suo libro”, esecuzione che comporta pari ardimento:

Fiamma
“Dante fu Ulisse e in qualche maniera poté temere il castigo di Ulisse.”
Teodolinda Barolini non accetta la tesi di un Dante esitante nel suo inconscio fra condanna e ammirazione nei confronti di Ulisse, ma ritiene che nella figura di Ulisse si rifletta una consapevole preoccupazione di Dante per aver intrapreso l’ardimentoso viaggio nell’aldilà:
“It seems far more likely that Ulixes reflects instead Dante’s conscious concern for himself.”
Bisogna però ritenere che il messaggio cosciente di Dante sia questo: solo colui al quale sia stata concessa la grazia divina e non chi si affidi soltanto al suo personale ardimento è legittimato a voler conoscere oltre ogni limite.
Dante, nell’accingersi a dare inizio al suo viaggio nell’aldilà, si chiede se non sia follia volerlo compiere:
“Per che, se del venire io m’abbandono,
temo che la venuta non sia folle.” (Inferno, II, 35-36)
Virgilio lo incoraggia, svelandogli che il suo viaggio avverrà per volere divino grazie all’intercessione di Maria, Lucia e Beatrice:
“Dunque: che è perché, perché restai,
perché tanta viltà nel core allette,
perché ardire e franchezza non hai,
poscia che tai tre donne benedette
curan di te ne la corte del cielo,
e ’l mio parlar tanto ben ti promette?” (Inferno, II 121-126)
Alla luce di testi sacri passati in ampia e puntuale rassegna Mario Aversano mostra come in Ulisse sia da ravvisare la curiositas che conduce alla perditio. Nel solco di questa interpretazione, dovuta al metodo ermeneutico della “semiosi obbligata”, possiamo mettere in evidenza un passo di Agostino:
“Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas” (De vera religione, XXXIX, 72).
Passo ripreso poi dal Petrarca dell’ascensione al Monte Ventoso:
“Et eunt homines admirari alta montium et ingentes fluctus maris et latissimos lapsus fluminum et oceani ambitum et giros siderum, et relinquunt se ipsos (Confessiones, X, 8, 15),
Esplicito e perentorio è dunque il monito cristiano a rinunciare ad avventurarsi nell’esteriorità e a ricercare la verità nel proprio intimo. Voler esplorare la realtà esteriore spingendosi al di là di ogni limite, senza inoltrarsi nella profondità del proprio animo alla ricerca della verità che è Dio: questa la vera colpa dell’Ulisse dantesco.

Ulisse e Nausica
Per Bruno Nardi Ulisse è simile ad Adamo, avido di conoscere il bene e il male, conoscenza che è un sapere divino, come si legge nel libro della Genesi là dove l’insidia del diavolo viene espressa così: “Eritis sicut diis, scientes bonum et malum”. Se teniamo presente questa promessa diabolica, possiamo meglio comprendere la condanna dell’Ulisse dantesco per il suo voler divenire “esperto […] e delli vizi umani e del valore”, ossia del male (vizi umani in quanto peccaminosi) e del bene (valore nel senso di virtù).
Da notare che Dante vuol mettere in risalto che Ulisse e i suoi compagni, allorché si accingono alla pazza impresa, sono ormai in tarda età:
“Io e’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi
acciò che l’uom più oltre non si metta” (Inferno XXVI 106-109)
Analogamente nel canto successivo Guido da Montefeltro riconosce che, divenuto vecchio, avrebbe dovuto perseverare nel pentimento:
“Quando mi vidi giunto in quella parte
di mia etade ove ciascun dovrebbe
calar le vele e raccoglier le sarte,
ciò che pria mi piacëa, allor m’increbbe,
e pentuto e confesso mi rendei;
ahi miser lasso! e giovato sarebbe.” (Inferno XXVII 79-84)
La vecchiaia è l’età in cui si deve abbandonare ogni baldanzosa velleità giovanile e pentirsi di ogni passata trasgressione.
A questo punto bisogna chiedersi se Ulisse nel narrare la propria vicenda si mostri consapevole di essere stato giustamente punito per il proprio ardimento. Orbene, è lui stesso a definire “folle volo” l’impresa finita in catastrofe. Su questa linea si dispongono poi il Petrarca nel Trionfo della fama, ove si legge che Ulisse “desiò del mondo veder troppo”, e il Boccaccio nella Amorosa visione, ove si legge che Ulisse “per voler veder trapassò il segno”.
III – Ulisse dopo Dante [Leggi]
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