L’evoluzione del concetto di labirinto mito d’origine della matematica e metafora della conoscenza e del mondo di oggi.

Una scena di Shining (1980)
Shining è un film capolavoro del genere horror. Il secondo in assoluto nella graduatoria stilata dagli esperti di questo genere. La storia narrata è quella del romanzo omonimo di Stephen King che Stanley Kubrick portò sul grande schermo affidando la parte del personaggio chiave, uno scrittore in crisi, al grande Jack Nicholson. L’epilogo del film si consuma in un labirinto fatto di siepi imbiancate dalla neve. Lo scrittore vi entra in preda a follia omicida. Non riesce più a uscirne malgrado sia in possesso di una mappa globale del labirinto. Vi muore assiderato.
Il film è del 1980, lo stesso anno al quale risale il racconto di un’altra vicenda che si consuma in un altro labirinto: un gigantesco rogo di libri, ovvero di conoscenza. È l’anno in cui Umberto Eco pubblica Il nome della rosa, un thriller che racconta di omicidi che avvengono in epoca medievale in un’abbazia benedettina famosa per la sua biblioteca. Guglielmo di Baskerville e il suo assistente Adso, personaggi fondamentali del romanzo, entrano nella biblioteca che è un labirinto di stanze, porte, corridoi, incroci, alla ricerca della verità. Scoppia però, causa una candela rovesciata, un violento incendio che riduce presto tutto a cenere. Adso e il suo maestro, grazie ad un agire logico, si salvano, riescono a raggiungere l’esterno.
Entrare in un labirinto è facile, difficile è uscirne.
È questo ciò che si sa fin dal primo e più famoso labirinto dell’antichità: il labirinto di Cnosso, costruito da Dedalo per ordine di Minosse quale prigione del Minotauro, nato dal rapporto fuori natura di Pasifae, moglie di Minosse, con il toro bianco di Poseidone. Il mito è un groviglio di personaggi, storie, luoghi, amori, logica, creatività, voli riusciti e altri finiti in tragedia. È anche la storia di Arianna, figlia di Minosse e Pasifae, che s’innamora di Teseo e gli fornisce il gomitolo per entrare nel labirinto, raggiungerne il centro, uccidere il Minotauro e ritrovarsi di nuovo all’esterno, vittorioso.
È, tra l’altro, uno dei miti d’origine della matematica, metafora di una delle sue doppie nature: l’algoritmica, il passo dopo passo del calcolo, il filo percorribile nei due versi, in entrata e in uscita, e all’opposto la dialettica, metaforicamente l’allontanamento dal filo teso alla ricerca della luce, della terza dimensione, simboleggiato dal volo tentato da Dedalo, che a lui riesce e al figlio Icaro no! Risultato invertito rispetto a quanto avviene in Shining, dove è il figlio che si salva e dove quel labirinto di siepi è, per lo scrittore, l’immagine sconnessa del suo cervello. Della matematica però il labirinto non costituisce solo una metafora utilizzata per radicarne un’origine: è anche un oggetto importante di studio nell’ambito della teoria dei grafi, delle reti, della combinatoria, della topologia. Lo mette ben in evidenza Pierre Rosenstiehl nella voce “Labirinto” dell’Enciclopedia Einaudi.

Dal film: Il nome della rosa (1986)
E qui forse un’altra considerazione è inevitabile per la storia di questo mito che nel corso dei secoli si è riproposto continuamente, arricchendosi di significati e immagini. La considerazione è che anche l’Enciclopedia Einaudi è realizzata, come Shining e Il nome della rosa, in quegli anni a cavallo tra 1970 e il 1980, ponendosi essa stessa come labirinto: il sapere è un labirinto e così l’Enciclopedia. E anche la matematica è un labirinto
Quegli anni cioè realizzano una rinascita del labirinto, che riprende appieno la sua potenza simbolica e magica quale immagine interpretativa della complessità che è la forma predominate della realtà. Topologicamente cessa di essere equivalente al suo gomitolo, cessa di essere ad una sola entrata e unicursale. Cessa di avere un centro e diventa prototipo di un sistema a-centrato. Il labirinto di Il nome della rosa ha una struttura diversa dal labirinto della preistoria, dei greci che è gabbia per il Minotauro, e delle siepi di Shining e diversa da quello della cattedrale di Chartres che conduce il pellegrino al centro, a Gerusalemme. Il labirinto della biblioteca benedettina ha una struttura ad albero che si biforca continuamente, come già investigato geometricamente da Jorge Luis Borges in “Il giardino dei sentieri che si biforcano”, un altro thriller.

Gentiluomo del labirinto (1510 ca)
C’è anche un terzo tipo di labirinto, quello sul quale in particolare Eco ha proseguito le sue ricerche.
Il terzo e più complesso labirinto è una rete o, come lo chiamano Deleuze e Guattari, riferendosi alla vita organica, un rizoma – o radice di zenzero – che produce germogli in tutte le direzioni. Questo labirinto è una rete che non può essere “srotolata”, che non ha centro, non ha periferia, non ha uscita e le cui connessioni sono praticamente infinite, perché ogni punto può essere connesso con ogni altro punto. E poiché il processo di connessione è anche un costante processo di correzione delle connessioni, la sua struttura sarà sempre diversa da quella di un attimo prima e potrebbe essere attraversata prendendo un diverso percorso ogni volta. Così coloro i quali si muovono al suo interno devono anche imparare a correggere costantemente l’immagine che ne hanno.
È così che Eco ha sviluppato la sua idea di labirinto e di Enciclopedia, illustrandola nel saggio Autobiografia Intellettuale introduttivo di La filosofia di Umberto Eco (2021). Viene immediato e naturale allora guardare a questa nuova immagine di labirinto come qualcosa che si adatti bene a quel che pensiamo dei nostri sistemi di conoscenza, del mondo che ci pervade, del nostro compito. Tante le entrate. Dove dirigersi e quale percorso scegliere? Il che ci riporta al cartesiano: Quod vitae sectabor iter?
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