Dal testo di una conferenza di Carlo Bernardini di dieci anni fa: Pitagora dimostrato dai fisici.
1- A e B sono omogenee
2 – A e B hanno le stesse dimensioni fisiche
3 – A/B è un rapporto adimensionale.
Entra nel discorso l’espressione “dimensioni fisiche”, chiave di volta del problema. Il miglior testo disponibile è quello di L. Sédov: Similitude et dimensions en mécanique Edizioni MIR (Mosca) 1972. Ci sono anche importanti lavori di Bridgman.
Capisaldi: Isaac Newton già usa le dimensioni, Jean Baptiste Fourier (fine ’700) le introduce. James Clerk Maxwell inventa le notazioni che portano il suo nome (circa 1850), Il “Teorema Π” di Buckingham (1914). Con la nascita della fisica newtoniana si capisce ben presto che tutto è misurabile in termini di Masse (M), Lunghezze (L) e Tempi (T). Perché bastino questi tre “tipi” non lo sappiamo spiegare. Ma quando diciamo che una grandezza A si comporta per cambiamenti di unità di misura come Mμ Lλ Tτ intendiamo che A “scala” come i rispettivi fattori di conversione elevati alle potenze indicate. Le grandezze adimensionali hanno esponenti tutti nulli e perciò non scalano. A e B sono grandezze omogenee se hanno gli stessi esponenti caratterizzanti le loro dimensioni fisiche. Se si vuole operare solo sulle dimensioni delle grandezze, si usano le seguenti notazioni di Maxwell che consentono di capire le leggi di scala:
Dimensioni di A = [A] = MμLλTτ
Per esempio, [area] = L2
Questa formula dice che se le dimensioni lineari di una figura vengono dilatate (o contratte) di un fattore numerico k, l’area della figura cambia il suo valore numerico di k2 .
Facciamo una divertente applicazione: proviamo a dimostrare il teorema di Pitagora da fisici.
Prendiamo una qualsiasi linea chiusa (a lato). L’area di questa strana linea si può sempre scrivere come: un numero f che dipende dalla sua forma (perciò, “fattore di forma”) e dalla scelta di CC’ moltiplicato per la lunghezza del segmento CC’ al quadrato: Area = f (CC’)2
Questo dice solo che se dilatiamo (come si fa nelle fotocopie, per esempio) le lunghezze, in ogni direzione, di k, l’area cambia di k2 Questo ( a lato) è un triangolo rettangolo in V.
L’ipotenusa è CC’; l’altezza VP divide il triangolo in due nuovi triangoli rettangoli simili tra loro e simili a quello intero perché hanno sempre un angolo in comune (in C e in C’). Se scriviamo le aree usando i quadrati delle ipotenuse è perciò evidente che:
Area (CC’V) = Area(CVP) + Area(C’VP)
f(CC’)2= f(CV)2+ f (C’V)2
E dividendo per f resta il Teorema di Pitagora! Ci si può esercitare ad usare il gergo rispondendo a queste domande:
- Qual è il fattore di forma per l’area di un cerchio rispetto al suo diametro?
- Conoscendo l’area del cerchio, come si può trovare con puri argomenti di scala l’area di una ellisse?
- E se ragionassimo sui volumi, che cosa cambierebbe nelle leggi di scala?
- Perché non ha senso chiedersi se l’area e il perimetro di un quadrato possono essere uguali?
Quanto sopra è tratto dal testo della conferenza Considerazioni sulla didattica dei problemi formalizzabili tenuta da Carlo Bernardini al Congresso Mathesis del 2012 e pubblicato sul Periodico di Matematiche 3/2012 [VEDI]
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