La matematica come entità storico-sociale e nel suo rapporto con la diversità di genere. L’avvenente cortigiana a Rousseau: Lascia le donne e studia la matematica.
Jean Jacques Rousseau è un nome importante nella storia della pedagogia e della filosofia e lo è nella storia dell’insegnamento della matematica. Ultimamente, per quella dose di antipedagogismo che sembra sempre di più emergere dalle discussioni sulla scuola-azienda, ho voluto parlarne ad un incontro di docenti di matematica (vedi slide)[1]. Ne ho parlato con riferimento sia ad alcuni precetti didattici, sia al notissimo episodio dell’avvenente e colta cortigiana Giulietta, che lo invita a lasciare le donne e a darsi alla matematica.
L’episodio è raccontato da Rousseau nelle Confessioni, l’opera che egli scrisse per essere sincero con il mondo, “per mostrare” ai suoi simili un uomo “in tutta la verità della natura”.
L’episodio di Giulietta riguarda le sue esperienze sessuali nel periodo dall’agosto 1743 al settembre 1744, in cui fu a Venezia segretario dell’ambasciatore di Francia presso la Serenissima. Aveva conosciuto Giulietta, bella con i suoi vent’anni, ad un pranzo al quale era stato invitato e ne era rimasto soggiogato. “Non cercate di immaginare il fascino e le grazie di questa ragazza incantatrice, restereste troppo lontani dalla verità. Le giovani vergini dei chiostri sono meno fresche, le bellezze del serraglio sono meno vive, le urì del paradiso sono meno provocanti”.
Dunque, prese con lei un appuntamento d’amore per il giorno seguente e racconta: “Entrai nella camera di una cortigiana come nel santuario dell’amore e della bellezza; credetti di vedere la divinità nella sua persona”. Tutto a un tratto, però, in mezzo alle “fiamme” del desiderio che lo divoravano, fu assalito dal dubbio di poter contrarre qualche malattia venerea. Si bloccò! E a tal punto da provocare la sdegnosa reazione di Giulietta: “Lascia le donne e studia la matematica”.
Una frase entrata nella storia (anche se come concetto ne faceva già parte da millenni).
Letterati, filosofi, matematici l’hanno spesso citata quale sintesi di una acclarata opposizione cuore/ragione. Da una parte la matematica: severa, arida, fredda, serva della ragione. Dall’altra ciò che è frivolo, passionale e femminile, soggetto cioè alle emozioni e ai moti del cuore. La matematica è contraria alla natura delle donne, dirà ancora il Leopardi. Un’opposizione sopravvissuta fin oltre la seconda metà del secolo scorso tanto da caratterizzare lo stesso modo di fare e di insegnare matematica.
Il caso emblematico è Charles Dodgson che, ma siamo già nel pieno XIX secolo, si sdoppia: da una parte l’insegnante, compassato e noioso, dall’altra il comunicatore appassionato, l’amante degli indovinelli, dei giochi logici e di una fantastica realtà che si trasforma con l’immaginazione.
Un’opposizione che porta a riflettere sul valore della matematica come entità storica e sociale.
In particolare, se sia stata la matematica ad avere pesato di più nell’alimentare e mantenere la diversità dei generi o viceversa sia stata quest’ultima a pesare sulla matematica condizionandola e influendo sul modo di concepirla e sulla sua funzione sociale. E quindi, in definitiva, se e in che misura l’apertura al mondo femminile – oggi peraltro già dominante nel campo dell’insegnamento ove per prima ha attecchito – stia cambiando la matematica in tutti i suoi aspetti, compresi il ruolo sociale, culturale, pedagogico.
E, ancora, se questo cambiamento, certamente in atto, non sia un recupero di qualcosa che si era perso nel tempo, una parte, forse, del nocciolo dell’essenza, come diceva Stanislaw Ulam, della matematica. Qualcosa di riconducibile al matriarcato primitivo, al tempo delle dee-madri ispiratrici dei più noti miti d’origine della matematica evocanti la componente femminile: Metis, ad esempio, dea-madre della razionalità, che Zeus incorpora dopo averla messa incinta di Atena, o Arianna, più umana, che concede a Teseo il filo per uscire dal labirinto, per salvarsi dal Minotauro, metafora efficace, tuttora, del pensiero algoritmico.
Per tornare a J.J. Rousseau, egli non lasciò le donne e continuò a studiare la matematica, annotando nelle Confessioni gli sforzi per apprenderla nonché il piacere di scoprirne regolarità e bellezza, ma anche la contrarietà alla natura femminile.
Annotazioni di pensieri che già aveva tradotto in precetti didattici per l’educazione di Emilio[2].
Se fosse stato per lui la matematica avrebbe continuato a non essere insegnata alle donne, Euclide non avrebbe avuto il successo didattico dei decenni successivi, il ruolo delle dimostrazioni sarebbe stato molto più contenuto, l’educazione alla manualità e il disegno sarebbero stati molto più coltivati. Per tutto questo J.J. Rousseau costituisce una pietra miliare per parlare di matematica e rammentare che l’arte di insegnarla è un’arte antica, una sfida continua per l’uomo, e che non vi sono ricette definitive valide per tutti e per ciascuno.
È un problema aperto che è un invariante storico di tutte le epoche e le società.
Un invariante come lo è il problema più generale del che cosa insegnare ai giovani: «Che cosa occorre che i giovani imparino? Che imparino quello che debbono fare quando saranno uomini e non ciò che devono dimenticare». La risposta di Rousseau che accomuna maschi e femmine è in linea con quanto oggi si afferma e si chiama meta-apprendimento e riguarda il carattere, la resilienza, le qualità formative da perseguire adottando “la più grande, la più importante, la più utile regola di tutta l’educazione che non è quella di guadagnare tempo, ma quella di perderne”.
NOTE
[1] Questa nota è stata scritta anche per essere d’ausilio alla lettura delle slide la cui comprensibilità è compromessa da tutte quelle parti che mancano perché dette a voce.
[2] Rousseau comincia a scrivere le Confessioni alla fine del 1766, mentre l’Emilio l’aveva pubblicato nel 1762.
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