Antologia matematica di Matmedia, parte terza. Un passo tratto da Stanislaw Ulam per una riflessione sull’insegnare matematica.
La parte terza dell’Antologia Matematica di Matmedia segue, ovviamente, la parte seconda che però non è stata ancora scritta. Si può anticipare comunque che essa sarà dedicata alla raccolta di ritratti che grandi autori ci hanno lasciato di altri grandi matematici vissuti dopo Cantor, ultimo a comparire nel famoso libro del 1937 di Eric T. Bell .
La parte terza inizia ora in forma sistematica con la pubblicazione di due pagine tratte dall’autobiografia Avventure di un matematico di Stanislaw Ulam sul tema dell’insegnare matematica. Nel testo alcune parole sono sottolineate e poi richiamate alla fine della lettura in domande alle quali i docenti-lettori sono invitati a rispondere e a inviarci, se vogliono, le loro risposte.

Stanislaw Ulam (1909 – 1984)
In generale, insegnare matematica è diverso dall’insegnare una qualsiasi altra materia. Io credo, come la maggioranza dei matematici, che si possa insegnare matematica senza una grande preparazione, essendo una materia nella quale ogni cosa consegue inevitabilmente da altre. Nelle mie lezioni agli studenti di livello superiore, nei seminari e nelle conferenze parlo generalmente di argomenti su cui sto lavorando in quel momento, in tutto ciò c’è qualcosa che prescinde da una scelta cosciente e ragionata del tema da trattare.
Mi è stato detto che insegno piuttosto bene. Questo è possibile in quanto io credo che occorra concentrarsi sull’essenza del problema e non spiegare tutti i passaggi con una monotona uniformità. Mi piace porre in rilievo le cose importanti e, in antitesi, pochi dettagli non troppo rilevanti. Si ricostruisce una dimostrazione ricordandola come se fosse una successione di punti piacevoli e noiosi – cioè difficili e semplici. Dapprima si incontra una difficoltà sulla quale occorre sforzarsi, poi le cose procedono per un po’ da sole automaticamente, successivamente ecco di nuovo un artifizio particolare che occorre memorizzare. È in un certo qual modo come percorrere un labirinto, cercando di ricordare le svolte a destra e a sinistra.
A Madison, quando insegnavo analisi (ed è una materia bellissima da insegnare), talvolta mi capitava di elaborare e risolvere un complicato problema al contorno e, presentandolo agli studenti, mi divertiva se qualcuno di essi se ne usciva col dire: «Ce ne faccia un altro simile a questo!». Essi ancora non sapevano come «questo» si chiamasse. Inutile dire che tali studenti non diventavano matematici professionisti. Ci si potrebbe chiedere se l’insegnamento della matematica abbia realmente senso. Se uno studente ha bisogno di avere spiegata ogni cosa in modo ripetitivo e se necessita di essere seguito pedissequamente, è probabile che egli non sia troppo tagliato per la matematica.
D’altra parte, se uno studente è in gamba, non ha effettivamente bisogno di un insegnante, eccetto che come punto di riferimento e ciò, probabilmente, serve solo ad influenzare i suoi gusti. A priori, tendo ad essere pessimista sulle capacità degli studenti, anche nei confronti dei più brillanti ( tuttavia ricordo di avere avuto ad Harvard alcuni studenti bravi, con i quali conversavo piacevolmente e che mi davano l’impressione di non stare semplicemente svolgendo uno sterile esercizio).
Parlando più in generale, l’insegnamento non mi preoccupa, sebbene finisca col pesarmi un po’ quando mi impegna per molte ore. ciò che non mi piace è l’obbligo di essere ad un dato posto ad una data ora – non riuscendo a sentirmi completamente libero. Questo dipende da una mia peculiarità caratteriale che descriverei come una sorta di irrequietezza. Quando ho una scadenza fissa, anche se si tratta di una cena gradita o di un party, io comincio a fremere. Al contrario, quando sono completamente libero, riesco a rilassarmi, non sapendo esattamente cosa fare.
Con il mio amico Gian-Carlo Rota una volta abbiamo calcolato che, compresi i seminari e le conferenza più specialistiche agli studenti, dovremmo avere insegnato, complessivamente nella nostra vita, per parecchie migliaia di ore. Se si considera che nel paese, la media delle ore lavorative in un anno ammonta a circa duemila ore, ne risulta che si tratta di una grossa porzione del tempo in cui un individuo è sveglio; tuttavia bisogna anche considerare che insegnare matematica non sempre si fa «completamente desti» poiché talvolta si è presi da un parziale stato di «trance».Stanislaw Ulam, Avventure di un matematico, 1995, pagg. 173-175
Dieci domande sulla lettura di Ulam
- Insegnare matematica è diverso dall’insegnare una qualsiasi altra materia?
- Si può insegnare matematica senza una grande preparazione?
- L’insegnante avverte da sé se insegna piuttosto bene?
- Come ovviare alla parte noiosa, se c’è, di una dimostrazione?
- Con quale frequenza occorre invitare a memorizzare?
- L’analisi è, per il docente, una materia bellissima da insegnare?
- L’insegnamento della matematica ha realmente senso?
- Quanto il docente è preoccupato dall’Insegnare matematica?
- Insegnare matematica si può fare in uno stato di «trance»?
- Il pensiero di Ulam quanto può essere condiviso da un docente della scuola secondaria?
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